Un randagio, ora come prima.
È così che Fabio Bartolo Rizzo, in arte Marracash, chiude la quartina successiva al ritornello di ‘Appartengo’, una delle migliori tracce di “Persona”.
Marra si racconta randagio per descrivere un forte senso di inappartenenza, figlio di un non sapersi collocare, del non capire cosa far corrispondere al concetto di ‘casa’.
Un sentimento molto simile, meno amaro, più malinconico, è descritto in ‘Bastavano le briciole’, dove vengono disegnati i lineamenti di una Milano del ’90, quasi color seppia, tanto umana quanto profondamente spietata.
Il brano è molto fotografico, sono immediate e concrete le immagini della periferia meneghina, delle case di ringhiera, delle dinamiche familiari, come il furto del camion del padre, o il dolore della madre dovuto ad uno sfratto a causa del quale si erano ritrovati a vivere in una risaia della Barona.
Altrettanto importante risulta il sentirsi profondamente inadeguato dell’artista, a causa di confronti continui con quella che era la realtà con cui quotidianamente si rapportava.
La natura di quest’inadeguatezza è sicuramente duplice, essere meridionale e povero -concetti divisi da un filo sottilissimo, soprattutto in quel determinato contesto storico- in una Milano ricca e ai limiti del secessionismo, avrebbe fatto sentire chiunque Davide contro migliaia di Golia.
La medicina, ma si badi, non cura, a quel marasma di tensione e sconforto, era il ritorno in Sicilia, terra natale della famiglia Rizzo.
Le ‘briciole’ che titolano la canzone non sono altro che questo ritorno a casa, uno staccare da un contesto quasi sempre ostile e riconciliarsi con una realtà da cui si è scappati per necessità.
Il messaggio concreto di questo brano è che il crescere in un ambiente complicato ti rinchiude in un circolo vizioso dove devi necessariamente scegliere se essere predatore o preda, partendo dal presupposto che l’essere preda ti costringerà, prima o poi, a diventare predatore di qualcun altro.
Il crescere, per Marracash, ha coinciso con varie prese di coscienza, “nel quartiere non hai niente, ma hai i veri amici / non possedere ti rallenta ma puoi riuscirci”, “erano gli anni ’90, Milano era un’altra / lì ho capito già che i miei non ce l’avevano fatta”, seguite poi da una chiosa su quella che è stata la più importante lezione che la periferia può insegnare:
“Se dai poveri ho imparato a fare i contanti
dai ricchi poi ad investirli e farne altri
e dai poveri a parlare come mangi
ma è dai ricchi che ho imparato scegliere i ristoranti.”
Non è un concetto da cui chiunque può attingere, e per comprenderlo è necessaria una forte sensibilità, come una capacità di saper guardare oltre tutti i propri dogmi e preconcetti.
Si descriveva la periferia come un circolo vizioso, delle sabbie mobili che ingabbiano testa e cuore.
La lucidità di Marracash sta nel vedere l’alternativa nell’esatto opposto di tutto ciò che ha sempre vissuto, in quel mondo borghese che più e più volte era stato il nemico e mai l’alleato.
Imparare dai ricchi a scegliere i ristoranti senza dimenticare a parlare come si mangia.
Riuscire ad emanciparsi senza dimenticare mai da dove si viene.
È stata proprio questa capacità di mettersi in discussione, la fame di chi sa che i treni per arrivare sono meno di quanto si pensa, a permettere a Fabio di diventare Marracash.
A distanza di 13 anni, nel suo album più intimo, l’artista torna sulla stessa tematica, l’inappartenenza.
In “Appartengo” si ripercorrono le orme di quella vita di quartiere popolare, dove tutti erano “malati di malavita”, dello spaccio, degli aiuti ai vicini ai domiciliari, si riprendono le immagini dei genitori “timorati di Dio e dello Stato” che Marra ha dovuto allontanare, perché conscio del fatto che fossero ormai completamente alienati al contesto e non poteva permettersi gli stessi errori.
Subito dopo questa sorta di confessione, dove lo stesso artista ammette di aver dovuto imparare a prescindere dal contesto per poter emergere, appare un forte sentimento nostalgico.
Nostalgia non propriamente diretta, accompagnata da immagini melanconiche.
Il finire “catturati dagli sbirri, o da un lavoro che odi, o da un matrimonio” rende ben chiaro un fato che attende inesorabilmente chiunque.
Sono anche significative le barre subito successive:
“[…], la mia tipa è fine,
Io le grido che è da lì che vengo, lo tenesse a mente,
Lei mi dice ‘Sì eh? Forse è lì che allora vuoi marcire’.”
Immagino una lite, tra Marracash e la sua compagna, dove Marra viene rimproverato per avere ancora degli atteggiamenti da quartiere, lui ha una risposta istintiva, ma il ribattere della compagna fa più male di un pugno nello stomaco.
Accorgersi che un qualcosa da cui si è sempre cercato di scappare è, a prescindere dal tempo, ancora profondamente intrinseco nel proprio essere, è profondamente logorante.
Logorante perché questo sentimento, nel riaffiorare, è così spontaneo, così naturale, da far rendere conto a chi lo prova di non essere mai davvero riuscito ad affrontare il problema, ad andare oltre i propri limiti.
E allora ci si riscopre piccoli, impotenti, indifesi.
Marra capisce di appartenere, paradossalmente, a quella realtà che a momenti disprezzava.
Ma ormai la vita è diversa, il quartiere è lontano, il successo apre quelle porte che nemmeno la periferia ti insegna a scassinare.
Ma chi assicura che dietro quelle porte non ci sia un baratro? Che tutto quello che si è sempre ricercato sia meno di quanto ci si aspettasse?
Sfortunatamente nessuno, ma d’altra parte le realtà difficili ti insegnano anche – e soprattutto- a prepararti al peggio.
È come se Marracash si rendesse conto di non appartenere nemmeno alla via del successo, e allora si sente “randagio, ora come prima”.
Questa mancanza, decisamente sofferta, è descritta nelle ultime tre barre della strofa di Marracash:
“Forse è lì dove ho lasciato il cuore, tempo perso in sale d’aspetto
Nelle caserme e negli ospedali, mentre aspetti chiamino il tuo nome,
Siamo soldati, fra’, con le piastrine, è nei globuli e nelle piastrine”
Qui crolla.
Non riesce più a scacciare quell’idea dalla testa.
“Forse è lì dove ho lasciato il cuore”, in quelle strade, dove e per cui ha sempre combattuto, dove e per cui è diventato uomo, nonostante pensasse di poterne prescindere.
Quel sentimento “è nei globuli e nelle piastrine”, fa parte di lui e non può continuare ad ignorarlo, sapendo però di non potere tornare indietro.
Il ritornello poi è caratterizzato da una potenza lirica che in pochi altri possono permettersi, dove Marra continua il suo flusso di coscienza ed analizza il suo approccio all’argomento.
In questo brano è presente anche Massimo Pericolo, una delle penne più crude e concrete del rap italiano, che spacca il mood con una strofa che attraversa le vene.
MP ricalca quella nostalgia che sopraggiunge nel momento esatto in cui si pensa di essere riusciti ad andarsene, racconta come il crescere lo abbia cambiato, come rimpiange ciò che lo faceva soffrire un tempo.
Ed è proprio questa velenosa nostalgia che ci tiene intrappolati in un qualcosa che, nel nostro intimo, sappiamo -o crediamo di sapere- non faccia per noi, ma appare così spontanea da essere profondamente connaturata in noi stessi.
È come perdere la bussola, non sapere più contro cosa combattere.
Non tutti sono capaci di tornare sui propri passi, meno ancora lo sono di ammettere di aver sbagliato tutto dal principio.
Il rischio vero, da segnalare appositamente su un foglietto informativo, è quindi quello di non avere più un luogo -non necessariamente fisico, anzi- a cui appartenere.
Porsi in un limbo perenne e non riuscire più a reagire.
Lasciare il cuore, l’anima, sé stessi, in un luogo che non è più raggiungibile.
La domanda sorge spontanea: che si fa?
Ci si inventa un nuovo sé stesso? Ci si crea un nuovo luogo? Oppure si aspetta che, banalmente, i pezzi si rimettano a posto?
Non si può più provare a scappare, non si può aspettare, non si può tornare indietro.
Allora ci resta solo questa malinconica e nostalgica sofferenza? O sopraggiunge l’ansia di un avvenire quanto mai incerto?
L’inappartenenza, nel concreto come nell’astratto, è un male?
E se è un male, come si cura?
Una risposta