Quando la Scienza incontra la Società
Il binarismo di genere che conosciamo oggi nasce 250 anni fa, quando i ruoli di genere si limitavano a ruotare attorno alle funzioni riproduttive, per quanto riguarda la donna, e alla mascolinità guerriera legata all’ideale virile, per quanto riguarda l’uomo. Questo processo aveva indotto alla patologizzazione e alla medicalizzazione delle identità di genere non conformi e delle sessualità non eterosessuali. Queste soggettività venivano rinchiuse negli ambiti della medicina e della psichiatria, così il sapere medico diventa quello deputato a parlare PER tali soggettività. Ovviamente, non si parla solo di discorsi medico-scientifici, ma di teorie che poi si calano nel quotidiano, arrivando a produrre corpi in maniera binaria, a partire dal livello più banale, quello dell’abbigliamento.
In sostanza, i casi di disforia di genere venivano considerati delle patologie e, come tali, dovevano essere curati farmacologicamente e dal punto di vista psicologico.
Da ciò si capisce quanto il concetto di genere sia solo un costrutto sociale e culturale che ha origine non molto tempo fa, completamente differente e non sovrapponibile al concetto di sesso, associato al corredo genetico (XX per la donna, XY per l’uomo). Inoltre, viene dato per scontato il fatto che, ancora oggi, è difficile discostarsi da questo binarismo di genere e da tutti gli stereotipi e ruoli sociali ad esso correlati.
La Gender Oriented Pharmacology è una branca innovativa della farmacologia, che evidenzia e definisce le differenze di efficacia e sicurezza dei farmaci in funzione del genere, non solo legata alla difformità degli organi sessuali, ma anche alle specificità derivanti dalla diversa fisiologia, psicologia e dai contesti socio-culturali differenti, i quali vanno ad influire sulle aspettative di vita e sull’approccio di cura dell’individuo. Un altro campo in cui è molto evidente la differenza di genere è quello della suscettibilità a sviluppare determinate patologie.
Ad esempio, per le donne il tasso di mortalità a causa di malattie cardiache è lievemente superiore rispetto all’uomo, si ha una probabilità fino a 3 volte maggiore di soffrire di depressione, dovuta a minori livelli di serotonina,e ancora, la donna ha una maggiore probabilità di sviluppare cancerogenesi polmonare, oltre che osteoporosi, malattie autoimmuni e malattie sessualmente trasmissibili.
Di conseguenza, le donne consumano farmaci maggiormente, anche a causa di fattori fisiologici, come ad esempio le mestruazioni o la gravidanza e le varie sindromi ad esse legate, e segnalano molte più reazioni avverse rispetto all’uomo, con un tasso di incidenza 1,7 volte superiore nella donna, dato che sottolinea l’importanza degli studi di genere nell’ambito farmacologico. Negli studi di farmacocinetica il punto di riferimento è un uomo sano di 70 kg e ciò risulta un problema, in quanto l’uomo e la donna sono caratterizzati da una composizione corporea diversa, soprattutto in termini di acqua e massa grassa-magra. Si discute ancora dell’eticità della sperimentazione clinica, tanto che sono presenti due differenti correnti di pensiero: una che crede che le donne in età fertile debbano partecipare ai trial clinici per garantire pari opportunità di ricevere cure adeguate,e l’altra che prevede la protezione di un’eventuale gravidanza e del possibile nascituro. Ad ogni modo, oggi la donna è poco rappresentata nel processo di drug discovery.
Alla luce di tutte queste evidenze scientifiche, che attestano la maggiore propensione della donna a contrarre determinate patologie, per una differente struttura e funzionalità dell’organismo, e quindi una maggiore necessità di assumere più farmaci che agiscono soprattutto sui sistemi cardiovascolare e riproduttivo, non sarebbe il momento di agevolare TUTTE dal punto di vista sanitario, favorendo una prevenzione e cure più accessibili economicamente? Non sarebbe l’ora di smettere di penalizzare la donna,costretta ad acquistare farmaci per sindromi premestruali, menorragie, dismenorree e tutte le patologie legate al ciclo mestruale, solo per un processo fisiologico e naturale differente dall’uomo? Non sarebbe più giusta una sperimentazione più equilibrata, che non faccia riferimento esclusivamente al maschio bianco cisgender di mezza età, per garantire pari opportunità di ricevere terapie efficaci?
Oltre alla maggiore inclusione della donna nei trials clinici, sarà mai possibile il raggiungimento di una sperimentazione “personalizzata”, volta a considerare le varie sfaccettature psicologiche e sociali dell’individuo, nonché le differenti identità di genere?