Il cinema dell’orrore di Anatoly Slivko

Il vasto mondo delle arti che ammiriamo, analizziamo e dalle quali siamo quotidianamente influenzati, è da sempre imperniato sul dualismo genio-follia e sulla trascendenza artistica che ne deriva. La cinematografia rappresenta artisticamente il legame fra l’estensione del tempo e la dimensione dello spazio in chiave performativa, tramite un’eclettica danza di riprese e montaggi. Quest’ultimi si rivelano strumenti attraverso i quali il regista ci trasmette la sua visione della realtà, tramite i quali scandisce il ritmo dell’opera, ne determina il tempo e lo condiziona a suo piacere.
Per Sergej Ejzenstein, maître à penser della prima Scuola di Montaggio -quella sovietica-, il montaggio ‘intellettuale’ è circoscritto dalla capacità d’astrazione sul piano metaforico dei pensieri dell’autore.
Più alta è la capacità di condizionare il pathos dello spettatore, maggiore sarà l’impatto che l’opera saprà donare allo stesso; una sorta di trascendenza verso l’estasi artistica.
In particolar modo nella produzione teorica ejzenstejniana della metà degli anni ’30 – i due volumi ‘La natura non indifferente’ e ‘Organicità e Immaginità’ – il corpo umano assurge a modello assoluto nella concezione di un’opera d’arte organica che si configura come corpo e organismo.
Purtroppo per Ejzenstein -e non solo- c’è chi da questa istrionica marcia di costruttivismo ha ricavato prodotti di violenza gratuita ed orrore assordante, sciorinandoli all’interno di quella che verrà ricordata come la funerea quanto oscura cinematografia di Anatoly Slivko.

Izberbaš, provincia del Daghestan, Russia Meridionale. Anno 1961.

Una bicicletta rossa, rivestita di ruvido acciaio sovietico, viaggia lungo uno sterrato di campagna con in sella un ragazzino appena adolescente che sferza il silenzio intorno a lui con il suono della catena delle sue ruote. Indossa fieramente la divisa dei ‘giovani pionieri’ di cui fa parte, equivalente URSS dei boy scout. Passano pochi secondi ed un rumore fragoroso riecheggia nella campagna sovietica. Una motocicletta attraversa a tutta velocità un incrocio, investendo e uccidendo l’innocente ragazzino ormai in balìa della sua stessa sorte.
A soccorrere, o quantomeno a provarci, sovviene un uomo sulla ventina, dal fisico emaciato, scarno e pallido come la luna, che scende- con la dovuta circospezione- dalla sua Ford Consul verde lucertola. A primo impatto l’uomo, seppur impassibile, non appare turbato o impaurito, nè tantomeno sembra disperato per l’incidente, altresì dimostra una freddezza sanguigna che trasale in pochissimi istanti verso una sempre più ardente sensazione di estasi mai provata prima, che sembra nutrirsi dei distinti odori di sangue e gasolio.
Pervaso di piacere l’uomo ha letteralmente un’erezione alla vista del corpo del ragazzino che ancora si contrae mentre le braccia della morte lo cullano lentamente nel suo ultimo viaggio.
Siamo nella Russia meridionale, Stalin è appena stato sepolto nelle mura del Cremlino, tira un caldo inaspettato e l’uomo che sta avendo il suo primo orgasmo a 23 anni, sul ciglio di una strada sterrata, si chiama Anatoly Slivko.

Anatoly si considera da sempre un’anomalia rispetto al corso dell’esistenza, una falla in un sistema universale che non lo tutela, bensì lo giostra a proprio piacimento.
Fin dall’infanzia vive nel limbo fra disaffezione familiare e bullismo sistematico a causa di un’idrocefalia che ne risalta il profilo magrissimo, smunto e scavato. Non gode di un bagaglio culturale molto ampio ed è per questo che viene costantemente rifiutato dalle università più prestigiose. Conosce a memoria ogni scorcio di orizzonte che vede dalla veranda della sua casa, ma non sa tenere in mano un pennello. Odia il personaggio di Ivan IV ne ‘La Congiura dei boiardi’ perché lo reputa troppo malinconico e nichilista, ma in realtà ci si rispecchia appieno ed è per questo che lo detesta. Anatoly non ha mai avuto un amico perché odia relazionarsi, né un’amica perché il genere femminile gli provoca indifferenza. Non sa cos’è l’eccitazione, rimprovera ogni forma di affetto e vive di continua frustrazione una vita che non sembra mai intenzionata a volgere verso ciò che lui ritiene adatto. L’unica via di fuga la trova nella cinepresa, nei suoi girati che, per quanto amatoriali, rivelano un lato stilistico che mira ad un realismo provocatorio per la madre URSS degli anni ‘60. Un’ipotetica svolta morale sembra avere luogo quando incontra Lyudmila, poi sua sposa e madre di due figli. Ma la parentesi familiare risulterà grigia, scevra di passione per la moglie e i suoi piccoli. D’altronde uno come Anatoly entra nella spirale coniugale solo per rivendicare una posizione sociale forte, di marito, di padre. Ma non basta. Nella loro intera relazione, durata quasi diciassette anni, avranno solamente dieci rapporti sessuali, inutile dire forzati dalla controparte femminile.
Non può sentirsi bene, Slivko, non riesce a curare sé stesso figuriamoci gli altri. La sua disperazione è catatonica, come una pressa costante sul petto.
Eppure quel giorno, sul ciglio della strada, si sente bene, troppo bene.

E’ il 1964 e la famiglia Slivko, tra bassi e sporadici alti, vive a Stavropol nell’Oblast di Rostov, sempre Russia meridionale.
Qui Anatoly sembra poter ricominciare da zero, lontano dai pregiudizi di cui sopra, dal malessere, ma soprattutto da una comunità che gli ha sempre voltato il capo. A Stavropol Anatoly è grintoso, popolare. Produce e gira cortometraggi sulle atrocità naziste durante la guerra, esponendo in festival locali. Si ritaglia, grazie ai riconoscimenti dei suoi girati, una nomina a direttore di un circolo ricreativo per ragazzi, il Chergid.
Qui, col passare dei giorni, i suoi pensieri si fanno turgidi, riprendono a correre in libertà. La voglia è tanta ed emerge in tutta la sua bollente frenesia quando i rampolli iniziano ad arrivare.
D’altronde è passato solo un anno dall’evento, dal delirium causa che ha risvegliato in lui un sentore di benessere, di ricongiungimento con un’estasi che prima di allora appariva chimerica.
Slivko ha il visto supremo di giocare, sperimentare ed osare con quelle creature.
Memore della turgida erezione avuta durante l’incidente cerca di replicare, secondo altre forme estetiche e canoni stilistici, il brivido di tale improvvisa eccitazione. Lo fa servendosi dei bambini. Divi involontari, feticci gloriosi di un regista di cui tutti hanno stima a Stavropol.
Slivko così pianifica, sceneggia la trama del suo volere: un esperimento capace di intrecciare la tecnicità del cinema all’umanità del corpo, come diceva Ejzenstein.

Egli progetta un sistema di allungamento della colonna vertebrale per far divenire i ragazzini più alti, metodo rudimentale ma non così impensabile per la Russia del tempo. Il pretesto stilistico? Spacciare gli esperimenti per documentari che emulano i metodi di tortura applicati dai tedeschi nei lager. In realtà si dimostrano atti di impiccagione controllata con perdita di sensi temporanea; i ragazzi attori vengono vestiti di tutto punto (costumi, divise, completi) portati in escursione nei boschi, incappucciati, filmati e solo successivamente fatti rinvenire. Così, ogni volta, così per mesi. Un modus operandi -quello della tortura controllata – che verrà ripreso ed affinato in futuro, dall’altra parte del globo dal ben più noto Jeffrey Dahmer negli anni ‘80. La parte che lo divertiva maggiormente era, senza dubbio alcuno, il momento del risveglio, quando calava i suoi capelli crespi fieri, sbarrando i suoi occhi dinanzi ai rampolli appena salvati. Occhi algidi da maschio rapace, un ibrido psichico lontano dall’infanzia immersa di povertà, malattia e pregiudizi. Anatoly è davvero felice.

Un pomeriggio di novembre, però, accade qualcosa di inaspettato, ai limiti del catartico.
Durante uno degli ‘esperimenti creativi’ un ragazzo, tale Nikolai Dobryshev di undici anni, non rinviene come da copione, nonostante i tentativi di salvataggio del regista. Il suo corpo è stato irreversibilmente soffocato a morte: il viso bluastro, cianotico, gli arti molli ed abbandonati. Nikolai muore, appeso ad un albero come foglia secca in un autunno troppo freddo per lui.
Ed è qui che la catarsi di Anatoly si può avverare.
Adesso si ritrova solo, con davanti il corpo di un ragazzino, un baby attore con indosso – pensate un po’- una divisa dei giovani pionieri. Sta coronando il suo sogno, Anatoly. Si sta ricongiungendo con la sua personalissima estasi. Ma manca ancora qualcosa per rendere il tutto più memorabile, più veritiero; manca l’odore ibrido del sangue che si mista al gasolio, manca il fuoco purificatore.
È un viluppo di nervi e corde pronte a saltare ed esplodere, teso ad esprimersi attraverso l’unica fonte artistica che egli riconosce, la violenza gratuita.
Inizia a tagliare gli arti superiori, poi sega gambe e piedi – rigorosamente con le scarpe ancora indosso- per poi raggrupparli e cospargerli di liquido infiammabile ed infine, il fuoco.
Lo definirà un errore, un incidente non calcolato nel corso delle sue macabre e neglette sperimentazioni. Un incidente nel quale il pedofilo killer incapperà altre sette volte, affinando la pratica dell’autoerotismo sui cadaveri inermi delle povere anime candide sulle quali ha perpetuato la sua furia erotica e omicida.
Proseguirà per oltre 15 anni il sottobanco tetro e terrorizzante di Slivko, che -racconterà dettagliatamente sotto giuramento alle autorità- arriverà a contare oltre cinquanta vittime adescate e molestate, tutti ragazzi maschi pressappoco adolescenti oltre alle sette vittime accertate che gli varranno la morte per fucilazione nel settembre nel 1989, a venticinque anni dal primo omicidio.
Durante le indagini che lo condurranno alla galera, la polizia sovietica si imbatte in uno stanzino nascosto, una camera oscura pullulante di filmati montati, fotografie di impiccagioni e ferri del mestiere, come seghetti e lame. Tutta roba reperibile con atroce semplicità navigando in rete, così come le atroci dichiarazioni del pluriomicida. Un’autentica memorabilia delle tremende pratiche sperimentali di Slivko: sono ritrovate anche le scarpe indossate dalle vittime che il killer custodiva come simbolo della sua insana, appassionata virtù.
Nell’URSS incastonata in una guantiera di misteri e depressione, nella stessa URSS dove realmente chi non terrorizza non si ammala di terrore Anatoly Slivko è riuscito nella sua impresa di condividere il suo punto di vista con l’umanità attraverso la sua fedele compagna cinepresa. D’altronde, come diceva Ejzenstein, “più alta è la capacità di condizionare il pathos dello spettatore, maggiore sarà l’impatto che l’opera saprà donare”, alla faccia di qualunque glasnost.

Nikolai Dobryshev, novembre 1964, anni 11.
Aleksei Kovalenko, maggio 1965, anni 11.
Aleksandar Nesmeyanov, novembre 1973, anni 15.
Andrei Pogasyan, maggio 1975, anni 13.
Aergej Fatsiey, settembre 1982, anni 13.
Vyacheslav Khovistik, dicembre 1982, anni 11.
Sergey Pavlov, luglio 1985, anni 15.

Alessandro Rossi.

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