Avevo sette anni, e non ricordo bene come fosse, avere sette anni.
Ricordo però quale, tra gli innumerevoli sport a cui mia madre ogni anno mi iscriveva, praticavo.
Il tennis.
Avevo già provato con il calcio, ma per quanto mi sia piaciuto e mi piaccia, le mie doti tecniche mi hanno spesso fatto presente quanto non fosse qualcosa di mio.
Anche col basket in realtà, ma sono lento, basso e goffo, in parole povere non c’entravo niente.
Dicevo, sette anni, tennis.
Sono la persona più scoordinata del mondo, mamma come facevi a non accorgertene?
Avrò un’intelligenza emozionale sopra la media, una maturità immane e doti carismatiche considerevoli, ma la coordinazione? Assolutamente no.
E quindi giocavo a tennis.
E lo odiavo.
Mio padre, un uomo molto citazionistico, davanti alle mie lamentele ogni qual volta arrivava il martedì, il giovedì o il sabato, giorni degli allenamenti, rispondeva “Anche Agassi odiava il tennis”.
Va bene, papà, Agassi avrà pure potuto odiarlo il tennis, ma era un fenomeno.
Io anche adesso odio scrivere, ma si può dire che una certa predisposizione ci sia.
Col tennis no, tantomeno con la coordinazione.
Fortunatamente per voi, il focus di questa storia non sono le mie misere doti atletiche.
Dicevamo, sette anni, tennis, era un sabato, ero invitato ad una festa di compleanno, di un compagno di classe.
Chiesi ai miei di non andare all’allenamento, non volevo tardare al compleanno.
Non ne vollero sapere.
Quindi andai a questo maledetto allenamento, scazzatissimo.
Così scazzato che a momenti giocavo bene.
Ricordo bene un ‘bravo Lorenzo’ del maestro, il primo dopo sei mesi di allenamenti insieme.
Bravo il cazzo, maestro di tennis di cui non ricordo nemmeno il nome, io da qua me ne voglio andare, non me ne frega niente di essere bravo.
Mi aspetta della rosticceria scadente, canzoni brutte accompagnate da improvvisazioni di breakdance, bibite gasate, un po’ di socialità e una torta enorme al gusto di cartone.
Quindi torno a casa, doccia, maglietta tamarra, jeans grandi tre volte me e New Balance ai piedi, ero pronto ad uscire.
“Tremenda quella maglietta” mi diceva la mamma.
Mamma, ho sette anni, sono biondo e ho gli occhi azzurri, secondo te ho bisogno di vestirmi bene per fare conquiste?
Allora arrivo al locale, gasatissimo, bramoso di divertimento e sudore.
Nemmeno il tempo di arrivare e tutta la mia energia è stata buttata a terra.
“Ma arrivi solo ora?” è il quesito che viene posto da tutti i miei amichetti.
Come a volermi dire, ciao, bello che sei qui, ti vedo pure in forma, ma guarda, noi siamo tutti molto stanchi, ci siamo divertiti parecchio, ma ora è il momento di andare a rinfilzarci di patatine e appoggiare le nostre testoline sudate sulle spalle di uno a caso dei nostri genitori.
Scommetto che non avrete molte difficoltà ad immaginarmi attonito, impietrito e fortemente deluso di fronte al contesto.
Io volevo essere lì dall’inizio, signori della corte, lo giuro e lo spergiuro davanti a questa giuria di bambini stanchi e sudati che non fanno altro che guardarmi storto.
Volevo essere lì, e volevo esserci in tempo, ma sono sopraggiunte cause di forza maggiore, impedimenti vari…
Per quanto volessi giustificarmi, con gli altri e con me stesso, ero più che consapevole che quelle giustificazioni non mi avrebbero riportato indietro quel divertimento ormai perduto.
Avevo sette anni, ero ad una festa di compleanno, e per la prima volta mi interfacciavo con quella che sarebbe poi diventata una delle più grandi croci della mia vita, la cronica mancanza di tempismo.
È come se avessi una sorta di orologio biologico tarato male, segna sempre un secondo in avanti o un secondo indietro, un minuto in avanti o un minuto indietro, un’ora in avanti o un’ora indietro, un giorno in avanti o un giorno indietro.
Il mio essere in ritardo o il mio essere in anticipo non è stato mai coerente, accadeva e basta.
In ritardo lo sono stato per qualsiasi cosa.
Scelte, parole, sentimenti, paure, incontri.
Potrei trovare un impedimento futile che ha inesorabilmente condizionato la maggior parte dei momenti della mia vita, a prescindere dalla loro rilevanza.
Soprattutto da piccolo, alle cose ci arrivavo sempre per ultimo.
E vi assicuro, era straziante, essere sempre l’ultimo.
Le mode, le amicizie, i vizi, le cadute e le vittorie.
Era come se fossi perennemente un passo indietro agli altri.
Magari rincorrevo le cose sbagliate eh, ma nessuno ti insegna cosa rincorrere, e se non avessi imparato a correre dietro a qualcosa di sbagliato non sarei mai riuscito a correre più veloce verso un qualcosa di giusto.
Il primo anno alle medie fu particolare, ero un pesce for d’acqua.
C’era questo gruppetto di ragazzini molto affiatato, ai miei occhi meno iene di tutti gli altri, meno squali.
Mi guardavo allo specchio e mi convincevo che loro non mi volessero.
In realtà, in quel periodo di forte crescita personale, ero convinto di non volermi nemmeno io.
Quindi ho imparato a volermi bene, non per gli altri, per me stesso.
Vi dicevo, periodo particolare, non è che da un giorno si passa dall’odiarsi all’amarsi, però ad una certa è successo, è successo ed ero estremamente insoddisfatto – e allo stesso modo estremamente inconsapevole che sarebbe stata solo la prima delle infinite volte in cui mi sarei dovuto voler bene a prescindere da tutto, da tutti e da me stesso.
Dicevo, crescita personale, consapevolezza eccetera eccetera.
Da lì nacquero amicizie, iniziò ad emergere quel carisma, quella fotta, piano piano mi stavo riprendendo tutto quello che avevo perso – mi stavo prendendo tutto quello a cui non pensavo di arrivare mai.
Finché quel gruppetto affiatato iniziò a prendermi sotto la sua ala.
Ero felicissimo, tutto aveva un senso.
Ma ricordo a chi legge, sicuramente anche a me stesso, che il tempismo non è sicuramente il mio migliore amico.
Non ho avuto nemmeno il tempo di integrarmi con quella che al tempo era la massima delle mie ambizioni sociali che subito mi si è sgretolata tra le mani.
Quel gruppetto affiatato si stava sfaldando, liti varie, incomprensioni, tutto ciò che concerne un gruppo di tredicenni insomma.
Si stava sfaldando e non avevo avuto nemmeno il tempo di arrivare.
Come se si iniziasse a sparecchiare nel momento stesso in cui ti siedi a tavola.
Capirete bene questa mia naturale predisposizione a sbagliare i tempi, e nella mia mente, ogni tempo sbagliato è perfettamente definito e scandito.
Bellissime dichiarazioni d’amore, atti poetici, pensieri, azioni, soprattutto incontri.
Tutto fatto bene, ma tutto fatto nel momento sbagliato.
Il problema sorge nei vizi.
Da bambino non bevevo coca cola, avrò iniziato a quattordici anni.
Ora ne bevo in quantità industriale.
Stessa cosa con il fumo, ho iniziato a fumare con frequenza solo quest’anno.
Col problema che conservo e consolido una media di un pacchetto al giorno.
Come se l’esagerazione fosse una risposta nervosa agli scherzi del tempo, come per dirgli ‘non mi importa che alle cose mi ci fai arrivare dopo, potrai controllare tutto ciò che mi circonda ma non controllerai mai me’.
Sì, okay, non ci credo nemmeno io, andiamo avanti.
Che poi fa ridere il fatto che io sia un fervente credente del Dio Destino, nonostante con me le coincidenze siano nella quasi totalità dei casi, estremamente infami.
C’è stato un momento in cui mi sono reso conto di quanto, allo stesso modo, mi risultasse facile arrivare prima a molte altre cose.
Sono cresciuto prima di molti altri, ho acquisito quella maturità immane sopracitata prima ancora che determinati momenti della mia vita me lo imponessero.
Avete presente quando succedono certe cose e la vita sembra dirti ‘scusami, hai quattordici anni, ma è il momento di crescere un po’ più in fretta’?
Ecco, io ho deciso di crescere in fretta a dieci anni, così, di punto in bianco.
Per poi rendermi conto, poco meno di altri dieci anni dopo, quanto questo crescere mi abbia fatto diventare quello che si alza prima da tavola perché è successo qualcosa e bisogna andare a risolverla.
Tipo un vigile del fuoco alla cena di Natale, stai lì con parenti vari, poi drin drin, suona il telefono, scusate devo andare, sta andando a fuoco la città, ma giuro torno subito.
Poi torni e loro hanno già aperto i regali che gli hai fatto.
Un’altra cosa che ho imparato a fare troppo in fretta è stato scrivere.
Talento disarmante, enfant prodige, mi definisco in tanti modi ma solo perché sono estremamente narciso.
La verità però è da guardare in faccia.
Quando ho scoperto di saper scrivere, e che lo scrivere canalizzava al meglio tutto il marasma delle mie emozioni, ho iniziato a farlo smaniosamente.
Fino ad arrivare ad un punto in cui temevo di aver esaurito le cartucce.
L’esserci arrivato troppo presto mi ha impedito di sapermi gestire, come l’arrivarci tardi col fumo e la coca cola.
Ad un certo punto temevo di aver sprecato tutto, salvo poi capire quanto lo scrivere fosse così ponderato al mio essere che difficilmente avrei potuto sprecarlo.
Dovevo solo darmi tempo
È che sono la personificazione del tutto o niente.
C’è stata una volta in cui sono stato sia in ritardo che in anticipo.
È stata la prima volta in cui mi sono innamorato.
Sarà stata la smania dell’arrivare, sarà stata la smania di riprendermela, ma Lei è stata molto brava, all’inizio, nel dirmi che era troppo presto, e allo stesso modo, quando le cose erano finite, nel dirmi che era troppo tardi.
Tutt’ora riscontro una radicale difficoltà nel darle torto.
Il tempismo mi ha sempre posto così tanto in difficoltà da farmi mettere in conto la possibilità di accontentarmi delle estremamente poche volte in cui il momento l’ho azzeccato.
Ma la cruda verità è che sono fedele alla vita, amo giocarci insieme e credere nei momenti che vivo, che siano fugaci, che siano in anticipo, che siano in ritardo.
Preferisco lottarci contro piuttosto che dirmi che se un qualcosa non ha avuto il tempo di cui aveva bisogno allora è destinata a non essere.
Il non essere è definito dall’immobilità degli individui ed è sradicabile da chi ha il coraggio di creare il tempo che gli manca.
Il ‘non credere’ appartiene a chi è timorato di sé stesso, del contesto e del destino.
Tutte cose a cui ho smesso di credere in giovane età.
Ma siccome l’onestà intellettuale è necessaria ed imprescindibile, al tempismo devo dare atto di uno dei più grandi ed importanti incontri della mia vita.
Non ricordo precisamente quanti anni avessi, non lo ricordano sicuramente gli altri protagonisti di questa storia.
Sette scapestrati, piccoli e indemoniati, provenienze geografiche varie ed eventuali, ritrovatisi per caso nella stessa località marittima.
Tutti diversi, tutti soli.
Il trovarsi è stato estremamente spontaneo, ed è proprio quella spontaneità ad averci permesso di tirare avanti ogni estate.
Con tutte le incomprensioni del caso, certo.
Ma affiatati come chi si conosce da sempre.
Col tempo saremmo diventati di più, grazie ad un susseguirsi di strane coincidenze che hanno avuto il merito di creare un qualcosa che si avvicina molto al concetto di famiglia.
Il tempismo è, fondamentalmente, l’incontrare qualcuno con l’orologio regolato male, meglio se regolato male come il tuo.