La Cumana

Quando incontrai Tecla per la prima volta furono innumerevoli le cose che di lei mi colpirono. Il fatto bizzarro che indossasse una maglietta con illustrazioni di pezzi degli scacchi; il dente incisivo manco, sull’arcata superiore, che era spezzato per metà; i suoi ampi occhi liquidi, affetti da un lieve strabismo divergente da icona bizantina; gli zigomi rosei d’amarena tiepidi come lumi su un volto di nuvola; il rivo notturno dei suoi interminabili capelli corvini. Era fresca, d’una giovinezza di primizia. 

Mi raccontava che era migrata da Kutaisi, antica città georgiana che sorge nel cuore mitico della Colchide. Ci conoscemmo nei pressi di piazza San Domenico, luogo dove, un tempo, si trovava la “porta cumana” di Napoli, chiamata con il medesimo nome che Strabone attribuì alla gola di Tarial, passo ai piedi del monte Kazbek, al limite tra Russia e Georgia, cancello caucasico delle terre attraversate dall’antico popolo asiatico dei poloviciani ai quali sarebbero relati i misteriosi cumani. 

Il poeta persiano Nizami cantava della venustà delle fanciulle cumane: 

“Giovani beltà dalle gambe più candide del giglio, i volti vermigli come fiamme ardenti e guance simili ad acque limpide”.

Di questa guisa mi parve Tecla, e ne fui rapito. 

Non trascorse molto tempo prima che io e lei avviammo una frequentazione romantica. 

Trascorrevamo diuturni pomeriggi alla scoperta della cultura georgiana.

Ero sorpreso dalle conoscenze letterarie di Tecla e assieme ci cimentavamo nella traduzione dei versi dei più mirabili poeti di Georgia.

Lei recava sempre con sé, come un talismano, una copia delle liriche di Tician Tabidze, l’ennesimo usignolo strangolato dalle purghe staliniane negli anni Trenta. Sulla quarta di copertina della vecchia edizione georgiana si trovava un piccolo ritratto fotografico del poeta, dal sapore sepolcrale, in bianco e nero, mentre esibiva in una mano una sigaretta scalcagnata e nell’altra un garofano, ch’era, invece,  tinto d’un rosso scarlatto a contrasto.

“…C’erano le fotografie dei diversi autori, e queste fotografie accendevano l’immaginazione non meno dei versi stessi. Per ore e ore me ne stavo a studiare un minuscolo riquadro in bianco e nero con la fisionomia di questo o quel poeta, cercando di figurarmi che tipo di persona poteva essere, cercando di dargli vita, di scoprire un rapporto tra la faccia e i versi…”, scrisse Iosif Brodskij nel saggio su W. H. Auden, e con il medesimo spirito di ingenuità letteraria io osservavo il ritratto di Tabidze impresso sulla lapide del libro.

Il poeta, in abito scuro e cravattino, aveva un volto stondato e ampio, come un orcio d’argilla per la conserva del vino, occhi minimi e inabissati in due orbite serie, orecchie di pipistrello, un’espressione fantasticante eppure intensa, da martire, e una capigliatura monella a frangia che faceva pensare a Carmelo Bene. Ne ho realizzato poi una stampa che tengo con me in luogo d’un santino: l’immagine di Tician con il fiore sanguigno è lì a ricordarmi che la missione d’un poeta valica la morte.

Tornando a noi, una mattina d’una piovosa domenica eravamo alle rocce verdi di Posillipo. Innanzi ai nostri sguardi, nella foschia, navigava il profilo di Capri, l’isola del lunatico Tiberio. Il mare sembrava periglioso, grosso e rumoroso come un poema. Io e Tecla traducemmo la poesia di Tician Tabidze verso la quale nutro la più sentita devozione.

Il Mar Nero

Splendido Mar Nero:
chi ha creato l’armoniosa voce
che mi ha fatto tutto tremare
mentre cantavi Medea?
Mi arrendo a questo gorgo di fantasia,
alla fauce ardente del drago.
Io cerco il Vello d’Oro,
mi concedo al mio destino.
Credi a quel che vuoi, ma la poesia eguaglia l’immortalità.
Una valanga mi sommerge. L’indicibile
mi soggioga. Le onde del Mito mi attanagliano
mentre intono un canto rinnovato.
Una nuova Argo, Orfeo io canto.
Voglio narrare dei nostri eroi,
dolce e oscuro mare,
ma le nozioni mi stritolano.
Questa città somiglia a una colomba tra i palmizi.
Vola tra le montagne, verso di me.
La luna si nasconde tra le maree dei nembi,
i demoni le hanno comandato d’annegare.
Come il canto degli Argonauti
questa notte di agosto si flette nel firmamento:
facendo del cielo la terra, della terra il cielo,
ed io mi innamoro ancora.

Gagra, 1925

La casa dove Tecla abitava in affitto con i suoi genitori faceva parte di un palazzotto ubicato nel ventre poroso del rione Sant’Antonio, quartiere che una volta era conosciuto col nome di “imbrecciata” e che fu la suburra partenopea. 

Per i vichi del rione non era raro imbattersi nella bandiera georgiana, la khutjvriani drosha, vessillo “delle cinque croci” rosse tracciate su un manto di neve, che sventolava dai balconi dei georgiani che popolavano la zona.

La vecchia dimora era la tipica infilata di stanze alla napoletana, al quinto piano, senza elevatore, da guadagnare scalando rampe di scale anfrattuose e scalcinate. 

Conobbi la madre, Tamuna, una donna di impareggiabile gentilezza, che, come spesso accade per le immigrate georgiane, lavorava da badante, e il tata, Andro, un uomo dal corpo marsicano ma dal carattere affabile, indefesso muratore nonostante l’età imbiancasse. 

Agitando i macigni delle mani Andro mi confessava che Napoli non fosse una buona città per via della penuria d’alberi lungo le strade. Sentiva nostalgia dei poggi fertili e familiari di Kutaisi e non apprezzava particolarmente le vastità del paesaggio costiero. 

Tamuna mi mostrò alcuni disegni che Tecla aveva pasticciato da bambina. “Che strano modo per disegnare il sole!” – notavo. 

Lei rideva – “Ma questo non è il sole! Questo è khinkali! Lo hai mai mangiato?” 

M’avesse annunciato il Creatore che stavo per assaporare il miglior banchetto della mia vita! 

A Tbilisi erano giorni di protesta.

Il popolo contestava la cosiddetta “legge russa”, la cui approvazione avrebbe significato un riavvicinamento politico ed economico alla sfera d’influenza della Russia di Putin, nell’ombra dello spettro sovietico. 

Com’è noto, la città natale di Stalin è Gori, in Georgia. Esiste un celebre ritratto fotografico del 1902 che ritrae il futuro capo del leviatano sovietico quand’era uno studentello barbuto, con i capelli scuri e folti, lo sguardo affilato e rapace, talmente georgiano da rassomigliare a Khvicha K’varatskhelia, l’arciere giunto dalla Dinamo Batumi per incendiare la storia del calcio partenopeo. Iosif Stalin prima di diventare lo sbirro baffuto che, in Georgia, si meritò l’epiteto di mamadzaghlo, “figlio d’un cane”.

Comunque, nella capitale e in tutta la nazione, le opposizioni, supportate soprattutto dagli studenti, fomentavano manifestazioni per le strade e per le piazze, chiedevano l’ingresso nell’Unione Europea, si stringevano al dolore dell’Ucraina, colpita dai bombardamenti russi. Una certa russo-fobia si diffondeva e riaffiorava dai fiumi del malcontento la pietra offesa dell’Abkhazia: del resto, la ferita sanguinava ancora. 

Tecla mi parlava con foga, m’ammoniva, mi spiegava che la Georgia è parte d’Europa, che loro non hanno nulla a che vedere con l’Asia, tantomeno con la Russia. Ardeva di speranze al pensiero dell’Occidente, dei diritti sociali e civili, della libertà di noialtri. 

Come avrei potuto svelarle con franchezza che per me essere europeo è un’onta detestabile, che i diritti di questa decrepita e ipocrita civiltà non m’interessano mica, che la Georgia l’amo così com’è, una terra di fiaba, di arazzi tra le vallate e i crinali, dove tutto è immolato in un sogno, come nelle pellicole di Sergej Paradžanov! Che io amavo la Georgia per le stesse ragioni per le quali mi sentivo attratto da Tecla. Ragioni sentimentali, rutilanti come viscere di melagrane. 

Forse aveva ragione lei, forse la Georgia non era soltanto un firmamento di pegasi in fuga, di santuari nubivaghi, di danze combattute su scacchiere, di Medee e sciabole lorde di vigna.

“Sì, matrioska mia, è proprio come dici…” – le rispondevo mite. 

Come sarebbe stata bella, Tecla, abbigliata in una chokha nivea, i crini raccolti in due lunghe funi di tenebra, un diadema brinoso sulla fronte… e che andasse al diavolo l’Europa intera!

V’è un’arcaica cittadina in Georgia, nella florida regione dell’Imerezia, chiamata Bagdadi (il medesimo toponimo della capitale irachena, il cui significato, dal persiano, è “dono di Dio”). Lì, nel luglio 1893, nacque Vladimir Vladimirovič Majakovskij, il più grande poeta sovietico, un georgiano quarto figlio di un forestale d’origine cosacca e di una domestica ucraina. 

Per onorare la vita del poeta, a cui egli stesso pose fine nell’aprile del ’30 premendo il grilletto contro il suo petto, a Mosca, le autorità sovietiche ribattezzarono la cittadella proprio col nome “Majakovskij” nello stesso anno, finché non riacquisì il nome originale di Bagdadi nel ‘91, dopo che la Repubblica Socialista Georgiana aveva ottenuto l’indipendenza. 

Forse il gigante, il Golia che concepì il così grande e inutile genio che compose “Il Flauto di Vertebre” fu proprio il Caucaso, atlantica catena montuosa dove Prometeo era stato incatenato. 

A Bagdadi, ancora oggi, accanto alla Cattedrale della Dormizione svetta la statua bronzea del poeta, coi baveri del cappotto sollevati contro il sole come ali d’Icaro o d’aeroplano. 

Un dì primaverile, in aprile, io e Tecla ci recammo sui pendii cilentani per una scampagnata. 

I mandorli e i peschi spandevano tenerezze lungo i sentieri, i prati erano virenti e pruriginosi, maculati da un morbillo di papaveri. 

Arroccato su un dirupo, un barbuto santuario montano aggrottava le sopracciglia. 

Correvamo nella scarlattina dei petali come nella scena d’apertura de “L’Albero dei Desideri” di Tengiz Abuladze: era il nostro Caucaso surrogato. 

Più tardi, la baciai. Le sue labbra avevano il sapore tingente delle more selvatiche. 

Pensai alla lettera dell’alfabeto georgiano “ghani”, che ha la forma d’un cuore, e la incisi sulla corteccia d’un pioppo. 

Ci sdraiammo nell’ombaco dell’albero, sul falso nevischio di pollini ai piedi del tronco, e Tecla iniziò a intonare una nenia georgiana a voce soffusa. 

Mi disse che si trattava della iavnana, la ninnananna tradizionale che le donne della Georgia rurale cantano ai pargoli per accompagnarli in un sonno di miele. 

E ancora prese a cantare, questa volta carezzandomi la barba con la sua mano di neve: 

“Hai trovato casa al seno della madre,

vini e rubini splendenti,

è cresciuto un pioppo, 

dove abita un usignolo…”

La sua voce era vergine, fanciulla, ma rassicurante come fosse quella di una balia esperta. Nel suono del canto mi parve di levarmi per azzurrità di aquile, di sorvolare tra le stelle di latte il letto del fiume Rioni, di stringere la mia amata in un volo avvolgente come in una tela dipinta da Marc Chagall. 

Quando fummo tornati a Napoli, dopo il crepuscolo, una luna indiscreta sembrava volesse insinuarsi per ogni finestra. Mi coricai come se il suono della iavana mi confortasse ancora. 

Forse è questo ciò che tutti i georgiani sentono quando pensano alla statua della Kartlis Deda, la madre del popolo, che protegge la città di Tbilisi dall’apice del colle Sololaki. 

Tecla non l’ho sposata, per un pugno di lari

In compenso, il mio sangue s’era tramutato per sempre in un vino secco di Cachezia. 



Nota dell’autore: 

Domando perdono a tutti i fratelli georgiani se la lingua italiana non mi permette di appellare la loro patria con il suo vero nome, Sakartvelo.



giacomo giancane.

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