LA NUOVA SCUOLA CAP. 2
Un bel pomeriggio vengo inserito in un gruppo WhatsApp, dal nulla. Nell’abbiocco post pranzo, lo sapete, si è rilassati, confusi, accaldati. Leggo il nome della chat. Mi scaldo ancora di più. Andrea Tundo, tra gli ideatori di ParolAperta, pensa bene di inserirmi nella stesura di articoli come questo, a tema istruzione, scolastica e universitaria che sia. L’idea è semplice, per quanto complessa di fondo: denunciare, attaccare, offrire potenziali spunti innovativi per quella che – da troppo tempo – è una realtà didattica che fa acqua da tutte le parti.
“La tesi di laurea, pertanto, risulta sempre più una prassi inspiegabilmente consolidata, che su carta si pone come ultimatum dell’istruzione ma che, nella realtà, non fa altro che sminuire lo studio dello studente e ritardare la conclusione della sua carriera.”
Frequento il secondo anno di università, studio diritto in un mondo in cui va tutto storto, vivo da mesi a wurstel e pasta scotta e, cercando di andare oltre i libri, mi capita di passeggiare per il campus. Alzo lo sguardo dal telefono e spesso mi ritrovo davanti ragazze e ragazzi in tailleur o giacca e cravatta, sorridenti, scortati dalla famiglia e dagli applausi, con una corona d’alloro in testa e un libricino tra le braccia, alzato a mo di Simba nel Re Leone; è proprio su “Simba” che ci concentreremo nell’articolo di oggi. E se Simba, quello del capolavoro Disney, un fine lo aveva, il Simba di carta, disperazione, fatica (e poi, forse, sorrisi), sembra sfuggire ad un senso concreto. Facciamo chiarezza. Frequento un corso quinquennale, dunque il bramato pezzo di carta – se tutto andrà bene – lo vedrò tra tre anni; la tesi, dunque, ora come ora è solo un argomento ascoltato qua e là. Ho deciso, tuttavia, di informarmi ulteriormente, spulciando nel web, chiedendo in maniera minuziosa e assillante alle persone a me vicine e
girovagando in università senza una meta ben precisa, se non mosso dal pallino fisso della curiosità. Quello che ho ricavato, però, è stato un senso di generale insoddisfazione, incazzature varie e – a tratti – frustrazione tangibile anche dai “non addetti ai lavori”. Parli con gli ex studenti, e più che riportare ricordi belli, avvincenti, eccitanti, sembrano usciti da un centro di recupero sociale: “cosa ricordi dei giorni prima della laurea?”, chiedo, “le bestemmie e le email a vuoto”, mi viene risposto. Non proprio il massimo insomma. Un vortice di burocrazia, dispetti e fretta da ventunesimo secolo. Esattamente, “bestemmie” e “mail a vuoto”. Se le prime sono anticlericali, le seconde non ci si allontanano di molto. Un giorno di settembre ti ritrovi incurvato su un sito, vuoi immatricolarti, lo fai, inizi a seguire, passano gli anni, gli esami, e sei vicinissimo al traguardo. Di colpo, però, come se non bastassero gli intoppi
presenti in ogni carriera studentesca, sei costretto a rallentare, fermandoti. Hai dato, o cercato di dare, tutti gli esami in corso, la società del ventunesimo secolo ti ha voluto performante, sei riuscito ad ottenere borse di studio oltre i complimenti di mamma e papà ma d’un tratto il sistema universitario italiano tira il guinzaglio, senti il collo andare indietro e risulti confuso, disorientato e il tempo impiegato per “laurearti subito” viene messo – inspiegabilmente – in discussione da un ufficio pubblico e da un professore che di “professore” ne
detiene solamente il prefisso al nome. Insomma, per tre, cinque, o più anni, sei una decina di numeri messi insieme, un elemento “semplicemente
inserito in un percorso obbligato” (per citare il caro Tundo di cui se n’è parlato ad inizio articolo:
https://parolaperta.wordpress.com/2021/11/30/la-doppia-laurea/) che altro non può fare se non ricoprire, al massimo, qualche carica a livello didattico (consigliere di dipartimento, senatore accademico et similia); per il resto deve studiare, studiare e ancora studiare. E fin qui non ci sarebbe nulla di male (si fa per dire). Segui, studi, dai esami. Un meccanismo freddo, quasi industriale, il quale – se si è onesti – preclude da ogni aiuto: nessuno ti spiana la strada, nessuno viene a chiederti “ti serve una mano per questo appello?”, nessuno
si interessa a te se non quando posi il sedere su una sedia dinnanzi ad una cattedra. Negli anni sei tu, te stesso e te medesimo. A fine percorso, però, sei obbligato a redigere una tesi, entrando in un vortice dantesco. Dai tutti gli esami ma non basta, ne serve uno di approfondimento finale, il quale tarda a compiersi specie se si
cade nel limbo dei dipendenti pubblici, delle mail cestinate e/o ignorate, delle risposte maleducate e dei dispetti fanciulleschi di taluni docenti: La tesi.
Ed è qui che “Simba”, quel libretto citato ad apertura di questo articolo, anziché un piacere risulta una condanna. In linea di massima, per ogni tesi, è centrale la scelta dell’argomento, al quale lo studente deve pensare mesi prima, con ancora – nella stragrande maggioranza dei casi – esami da convalidare, esami – quest’ultimi – dati quindi per inerzia; esami da togliere (e non dare, che è diverso) “perché devo fare la tesi”, non per il piacere di studiare, che dovrebbe essere alla base dell’insegnamento. Prima di individuare un docente da pregare, quindi, bisogna trovare l’argomento, il genere, il tema, il periodo, il metodo, la disciplina, tutti elementi da scegliere minuziosamente. Solo una volta fatto ciò si può pensare a quale docente chiedere
in vista della – speranzosa – discussione. Dopo di ciò arrivano le carte: inizia il via vai di moduli nelle segreterie, il via vai di firme e controfirme, per poi inviare nuovamente il tutto alle segreterie preposte; inutile sottolineare il tempo nel compiere ciò.
Bisogna, poi, suddividere il piano di lavoro, la bibliografia, i capitoli, le schede di lettura e confidare nella bona fides del professore di turno, il quale – come si legge nei massimi regolamenti universitari – “fornisce una pronta assistenza nel corso della ricerca, valutando l’intera tesi capitolo per capitolo, corretta e rivista, almeno un mese prima della data di laure”. Se tutto va bene, si approva e si valuterà l’idea di consegnare in maniera cartacea o digitale; una scelta, quest’ultima, quasi scontata in quanto è assodato come – quasi
sempre – venga indirettamente preferito il formato cartaceo, impiegando soli, viaggi e ulteriore tempo in capo allo studente.
Non basterebbe una mera convalida in ufficio e il conseguente rilascio della pergamena?
Discorso più intrigante avviene nelle tesi scientifico-sperimentali, dunque con pratica in laboratorio in cui si lavora come un vero e proprio ricercatore (peccato non esserlo davvero), mirando a conoscenze mai ricavate
in precedenza e sviluppando un lavoro da pubblicare per la comunità scientifica. Ciò avviene, ma con esso – spesso e volentieri – può seguire l’arricchimento da parte del relatore: io ti aiuto per la tesi, tu lavori, io uso i risultati della tua tesi per i miei articoli. Se va bene. Se va male, fa da scuola il caso di Bari, con la professoressa Giuseppina Pizzolante, Università di Bari, condannata ad un anno per plagio avendo copiato 130 pagine della tesi della sua studentessa, Concetta Piscitelli. Ancora, siamo in Toscana e quattro professori
dell’Università di Firenze vengono condannati per aver rubato la tesi di una studentessa, al fine di brevettare un kit per la diagnosi e il trattamento della sclerosi multipla, senza citarla nella pubblicazione. Casi fortunatamente isolati, ma la domanda sorge spontanea: quanti docenti possono aver scopiazzato qualche lavoro e non essere stati – tuttora e forse mai – scoperti?
Cosa fare quindi?
La tesi di laurea, pertanto, risulta sempre più una prassi inspiegabilmente consolidata, che su carta si pone come ultimatum dell’istruzione ma che, nella realtà, non fa altro che sminuire lo studio dello studente e ritardare la conclusione della sua carriera. Non sono pochi i soggetti che, finiti i corsi nelle tempistiche preposte, per amore della materia decidono di porre in essere tesi sperimentali o di ricerca. Tuttavia, questa passione viene punita, capita che le indicazioni fornite dal docente vengano totalmente messe in discussione da quest’ultimo, impiegano più tempo nella stesura e, automaticamente, per laurearsi, perdendo quindi eventuali premi di laurea e bonus decisamente utili e legittimi.
Una volta svolti tutti gli esami, ne serve uno finale a questo prezzo? Discutere un argomento di
approfondimento ha senso se lo si può fare benissimo fuori dalle mura universitarie, perché si deve arrecare ulteriore stress a chi, negli anni, ha posto non pochi sacrifici per raggiungere il traguardo? Non basterebbe una mera convalida in ufficio e il conseguente rilascio della pergamena?
Attendiamo risposte.
Una risposta
Il modo in cui si prepara la tesi e anche il sistema e le prassi corrotte e ingiuste che vi si celano dietro, non dovrebbero, a mio parere, indurci a ripudiare la tesi in sè, ma la tesi sì fatta. In fondo la tesi è, o dovrebbero essere, l’esposizione del nostro pensiero, a fronte degli studi e dei sacrifici compiuti.
A monte c’è il discorso del disinteressamento anche nei confronti della propria disciplina di studio, ma questo è un’altra cosa. In nuce: ovviamo ai soprusi e alle ingiustizie perpetrate dai professori, per mezzo della tesi, non alla tesi in quanto tale.