Non cadere

Come ci si sente a stare su un piedistallo e non cadere” si chiede Brunori Sas, in “Kurt Cobain”, brano in cui l’autore raccoglie le memorie del compianto frontman dei Nirvana.

È un brano estremamente forte, da collocare tra i pesi massimi del cantautorato italiano dal post-2000.

Brunori racconta il peso delle aspettative, nella fattispecie dell’inquantificabile mole generata dal successo, ma la narrazione e il sottotesto riescono a sfiorare quell’altrettanto cospicua quantità di pressioni e pretese che ognuno di noi pone su sé stesso.

Vivere, come volare

Ci si può riuscire solo poggiando su cose leggere, 

Del resto, non si può ignorare,

La voce che dice che oltre le stelle c’è un posto migliore”

Chiariamo una cosa, il brano parla del suicidio, citandone due, verificati o presunti tali, rispettivamente Kurt Cobain e Marilyn Monroe.

Parla della pressione e delle aspettative del successo, di quanto costi il peso di un immagine e di come l’atto estremo alle volte possa dimostrarsi una valida alternativa.

Lungi da me sviare dal vero significato del brano, ma Parolaperta è soprattutto ribaltamento del paradigma dell’informazione, e oggi vorrei proporvi quella che è la mia interpretazione personale.

Brunori descrive quelle che sono le logiche marce di chi ha imparato a nascondere le proprie fragilità dietro una forza apparente.

Descrive le dinamiche di chi ha raramente 

“[…] la voglia di andare, di andare a scoprire se è vero,

che non sei soltanto una scatola vuota,

o l’ultima ruota del carro più grande che c’è”

di chi ha un po’ paura di guardarsi dentro, non meno di quanta se ne abbia nel momento in cui sono gli altri, a guardarli un po’ dentro.

È il paradosso di chi si protegge, ma proteggendosi si rinchiude e smette di conoscersi.

Il cantautore cosentino sembra poi voler stimolare chi non ha il coraggio di guardare dentro quella scatola, lasciata a marcire in uno scantinato che ci terrorizza: invita a non temere della profondità delle cose, delle fragilità intrinseche alla nostra persona.

Continua, poi, ricordando Kurt Cobain e Marilyn Monroe:

“Ma chiedilo, a Kurt Cobain, come ci si sente a stare

sopra un piedistallo e non cadere.

Chiedilo, a Marlyn, quanto l’apparenza inganna

e quanto ci si può sentire soli,

e non provare più niente”

L’autore, quindi, come a voler indossare le vesti del terapeuta, si rivolge all’ascoltatore, che invece rappresenta il più testardo tra chi invece in terapia ci va, invitandolo a guardare due emblematiche figure del passato, raggruppando due facce della stessa medaglia: non si deve pretendere di non cadere, di non sbagliare, di non soffrire, nascondendosi dietro al dito dell’essere forti e dell’essere consapevoli – come Kurt Cobain -, e d’altra parte, si sofferma su quanto questa parvenza di forza ed ineluttabilità rappresenti banalmente il più semplice dei mezzi per sentirsi soli, svuotati: è un tipo di apparenza che ci si auto-costruisce, come una sorta di difesa del proprio io, se non che questa difesa si dimostra talmente opprimente da farci chiudere in noi stessi, tralasciando le nostre debolezze, e di conseguenza i nostri sentimenti, positivi o negativi che siano, fino a “non provare più niente”.

La seconda strofa è più sottile, Brunori parla di “quella voce che dice che in fondo a quel mare c’è un mondo migliore”, una voce che “d’altronde non si può tacere”: chiunque si trovi succube di un complesso secondo il quale sussista la necessità di doversi mostrare sempre più forti – e sempre migliori- di quanto realmente non si sia, ha parallelamente l’obbligo di vivere con il costante dubbio di non star facendo quadrare la propria vita come si vuole, come si deve e come si può, chiunque sia inciampato in una dinamica del genere non riesce minimamente ad evitare quella vocina che sussurra che sì, bello essere persone forti e di carattere, ma nel profondo, probabilmente, c’è un qualcosa di molto più bello.

Un qualcosa con cui bisognerebbe imparare a far pace.

Riprende poi quella “voglia di andare a scoprire se è vero”:

“Che il senso profondo di tutte le cose,

lo puoi ritrovare solo guardandoti in fondo”

Spesso ci si ritrova spaesati di fronte alla vita, alle sue declinazioni e alle interpretazioni a loro riferite: solo nel momento in cui si diventa capaci di guardarsi in fondo, capendo cosa concretamente si vuole dal mondo che ci circonda, si può dare “senso profondo a tutte le cose” vissute e da vivere.

È interessante notare il climax della prima e della seconda strofa e dell’outro: “Vivere, come” Volare, Nuotare, Sognare.

Il climax è sicuramente discendente, l’intensità dell’azione tende a perdere dinamismo, quasi ad assopirsi: si può evincere come non sia necessaria la frenesia per il raggiungimento dell’obiettivo.

Piuttosto bisogna far seguire l’ordine naturale delle cose.

“Vivere, come sognare,

ci si può riuscire solo spegnendo la luce 

e tornando a dormire.”

Volendo trarre delle conclusioni, “Kurt Cobain” parla a (e di) chi tende a preservarsi così tanto da perdere la contezza di sé stesso, e si ritrova talmente alienato da non rendersene conto.

Parla a (e di) chi deve essere sempre necessariamente forte e altrettanto raramente sé stesso, a chi soffre sempre di ciò che pensa l’altro e ha perso la capacità di decidere cosa sia giusto o meno per sé stesso.

Il brano ha un sottotesto di una catarsi unica: invita a non abbandonarci a ciò che ci opprime e di vivere la nostra vita nell’interezza della nostra persona, senza temere il giudizio dell’altro, e soprattutto senza temere il severo giudizio di noi stessi.

Ci ricorda come non possiamo prescindere dall’irrazionalità, che deve essere volo, profondità e sogno.

Ci ricorda che la paura del vuoto è dimostrazione di pienezza.

Ma soprattutto, sembra chiederci: se non curiamo questa pienezza, resterà sempre così preziosa?

O arriveremo in un punto in cui non proveremo più niente?

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