In un mare di emozioni
Quando da piccola andavo in spiaggia, avevo paura di nuotare. Non sopportavo le onde, le alghe e i pesci che si avvicinavano pericolosamente a me. Persino il colore del mare, quel profondo blu che si estendeva fin dove i miei occhietti non riuscivano ad arrivare, mi metteva angoscia.
Eppure, disegnare il mare era la cosa che adoravo di più. Lo facevo in continuazione, come se fossi ossessionata da qualcosa di così oscuro per me.
Poi un giorno mi sono fatta coraggio e, come tutti i bambini del mondo, ho superato questa irrazionale paura che mi sembrava un ostacolo impossibile da sormontare. Ho scoperto che in realtà non è poi così male nuotare, che i pesciolini non ti aggrediscono e le onde sono persino divertenti.
Da quel giorno entrare in acqua era diventata una cosa normalissima per me, come se avessi sempre saputo nuotare.
L’esperienza in carcere, per qualche strano motivo, mi ha riportato alla mente questo ricordo.
Dopo il primo giorno di totale disorientamento, tutto ha preso una piega differente.
Ho capito che per vivermi a pieno quell’esperienza, avrei dovuto abbattere ogni pregiudizio e timore, immergendomi a pieno in quella realtà.
E così, proprio come feci da piccola, mi sono tuffata nel mare di emozioni che mi suscitava quel posto.
Spegnevo il cellulare, consegnavo qualsiasi oggetto avessi con me, e scomparivo qualche ora per avventurarmi in una realtà in cui io, come chiunque lì dentro, ero nessuno.
Non si parlava mai del passato, tantomeno del futuro. C’era sempre un muro invisibile che separava la nostra identità da ciò che eravamo in quel momento. Tutto ciò che avevo pensato o vissuto in passato, scompariva: le mie esperienze, i miei sogni e le mie convinzioni non valevano niente. Praticamente non esistevo, ero una maschera senza volto.
Non potendo parlare di noi, discutevamo sempre di altro: parlavamo di amore, di odio, di fede e di scelte. Da semplici conversazioni arrivavamo ad affrontare discorsi esistenzialisti che ci trasportavano per ore. Tante voci, tanti sguardi, e pochi momenti di silenzio. Eravamo così immersi nelle parole, che quasi non sembrava di trovarci in un istituto penitenziario. Forse per paura o forse per speranza, mi sentivo come se fossi lì per cercare di scorgere una luce di umanità nel buio tenebroso di quel posto.
E per quanto possa sembrare strano, sento di essere in parte riuscita nel mio intento.
Una volta C. mi disse che il primo passo per privare una persona della sua libertà è cancellare la bellezza nella sua vita. Le ho chiesto cosa intendesse dire, com’è possibile cancellare qualcosa di così complesso come la bellezza nella vita di una persona.
Mi ha risposto che non è così difficile come si crede, la bellezza è ovunque se si hanno gli occhi giusti per vederla. Basta saper scorgere qualsiasi cosa, anche insignificante, che distragga la mente dall’apatia e dalla sofferenza.
La bellezza per lei, ad esempio, era nel caffè caldo la mattina appena svegli, con la moka che ti chiama dolcemente per avvertirti che è ora di iniziare un’altra giornata. Adesso nella sua stanza non ha nemmeno un frigorifero per mantenere l’acqua fresca, o un microonde per riscaldare il latte le sere d’inverno.
Le sbarre non sono sufficienti per limitare la libertà di una persona, bisogna scavare più profondamente, eliminando qualsiasi cosa che ricordi la normalità. Ecco spiegati gli spazi così piccoli, i colori asettici delle mura, le forme dell’edificio così spigolose e spogli angoli ricreativi; pochi libri, poca musica, pasti tremendi e orari assurdi per consumarli (la cena è prevista alle 18.00). Ogni sfumatura di bellezza è cancellata dal peso del nulla più totale che caratterizza le loro giornate.
C. lo aveva capito, e per questo motivo parlava spesso con noi. Ci chiedeva come fosse il tempo, se facesse caldo, cosa avevamo mangiato a pranzo o se conoscessimo qualche ricetta particolare da insegnarle. Domande banali, ma che avevano una grande importanza per lei. Attraverso le nostre risposte, poteva vivere per qualche minuto, seppur indirettamente, la bellezza delle piccole cose.
Qualche giorno più tardi ho ripreso il discorso con una volontaria che lavorava lì da molto più tempo di me, e che conosceva bene tutte le loro storie. Concordava con quello che mi aveva detto C., spiegandomi che il loro intento era proprio quello di far riscoprire la bellezza lì dentro.
Mi ha raccontato di quando tempo fa era stata assegnata la libertà vigilata ad una detenuta di nome M. a cui lei è particolarmente legata. Il primo giorno fuori, la donna ha espresso il desiderio di andare al mare. ‘Non vedo il mare da almeno 30 anni’, aveva detto quella mattina in macchina, ‘un tempo ci passavo giornate intere e adesso non ricordo nemmeno come si nuota’.
Era molto in ansia quel giorno e non sapeva cosa aspettarsi, come un bambino il giorno di Natale che sa di star per ricevere il suo giocattolo preferito. Non sai mai come reagire, quando hai davanti a te qualcosa che hai desiderato per tanto tempo.
Arrivate in spiaggia, M. non ha resistito un attimo. La sabbia, le onde, il vento e il sole, le hanno accecato gli occhi e annebbiato la mente. Senza proferire parola, ha iniziato a correre verso l’acqua, buttandosi direttamente con i vestiti e le scarpe addosso. L’emozione era così forte che non riusciva a pensare ad altro che al mare in cui si era immersa. È rimasta in acqua per almeno un’ora, senza rendersi conto dei vestiti bagnati e delle scarpe pesanti addosso.
M. aveva riscoperto la bellezza del mare, riassaporando così il sapore di libertà.
Neanche lei aveva paura delle onde in quel momento, né tanto meno pensava ai pesci che nuotavano insieme a lei nel profondo blu del mare. Si era immersa e basta, per la irrefrenabile voglia di sentirsi viva e bella.