Referendum Cubano: i come e i perché

Ieri, 24 febbraio 2019, 8 milioni di cittadini cubani sono stati chiamati a definire le sorti dell’isola. Il testo del referendum, approvato lo scorso dicembre dal Parlamento cubano, prevede delle modifiche al testo costituzionale finalizzate a legittimare politicamente una serie di riforme economico-sociali varate otto anni fa dall’ex Presidente Raùl Castro. Secondo le parole di quest’ultimo, la decisione di modificare la Costituzione è legata alla necessità di garantire “il trasferimento alle nuove generazioni della missione di continuare la costruzione del socialismo, garantendo l’indipendenza e la sovranità nazionale”. Fondamentale è individuare nelle parole del leader l’obiettivo che si cela dietro una tale decisione. Non si tratta di modificare il testo costituzionale di uno stato dall’assetto istituzionale definitivo, le cui basi politiche possono definirsi soddisfatte della forma assunta dalla nazione in questione. Si tratta di adattare il testo fondamentale all’ambiente politico ed internazionale contemporaneo, al fine di permettere alla legislazione di condurre la popolazione cubana al punto di arrivo prefissato dalla Rivoluzione del 1959 e definitivamente dalla Costituzione del 1976: la costruzione del socialismo. Lo dimostra l’assetto istituzionale, caratterizzato dalla dicotomia tra il Partito comunista, guida politica della nazione, e l’Assemblea Nazionale del Potere popolare, la quale si riunisce in due brevi sessioni annuali e delega il potere legislativo ordinario nelle mani del Consiglio di Stato, composto da 31 alti esponenti del partito comunista eletti dall’Assemblea Nazionale. Il rapporto estremamente vincolante tra il Partito comunista e l’organo governativo parlamentare palesa come tale assetto costituisca una fase di transizione verso l’affermazione di una società totalmente comunista. È la fase corrispondente alla dittatura del proletariato, necessaria per Marx ad assicurare il ribaltamento dell’ordine capitalistico preesistente e dunque alla formazione di un ordine sociale egualitario e privo di classi. Sulla base di tale premessa, il Partito comunista incarna il proletariato. Ma, quanto nella teoria marxiana tanto in quella leninista su cui si basava la Costituzione sovietica del 1936, la dittatura del proletariato (e dunque del Partito) è destinata a permanere finché la nazione non sarà priva di ogni rapporto di classe e dunque definitivamente “socialista”. Per quanto tale prospettiva possa apparire utopistica, questo modello è comune a tutti gli stati definiti comunisti dell’ultimo secolo, da Cuba al Vietnam, dall’URSS alla Cina. Ritenere dunque che gran parte degli stati in questione abbiano fallito nei loro intenti è legittimo.

Tornando al caso cubano, la necessità di modernizzare il testo costituzionale ed adattarlo ad ambienti internazionali sempre più ostili è finalizzata a manutenere la lunga e tortuosa strada destinata a condurre la popolazione cubana verso il suo avvenire socialista. La costruzione di questa strada fu delegata più di quaranta anni fa ai padri costituenti cubani, la cui carta costituzionale fu approvata con il 97,8 per cento dei voti e, per quanto la nazione abbia dimostrato numerose volte la propria integrità e determinazione, potrebbe divenire fatale l’avvento di una nuova generazione di leader politici privi del carisma dei comandanti che guidarono la Rivoluzione alla vittoria nel 1959. Le continue ingerenze statunitensi e le sanzioni a cui Cuba è soggetta costituiscono ostacoli decisamente inferiore rispetto a quelli che l’isola dovrà affrontare nel suo futuro prossimo. Quest’ultimo nelle previsioni appare poco florido per l’isola, considerando il suo isolamento geopolitico, l’inefficienza di una pervasiva e asfissiante burocrazia e una revitalizzata politica statunitense del “giardino di casa” mirata a “mettere fine al socialismo” in tutta l’America Latina. Pertanto un decisivo seppur prudente restauro costituzionale appare indispensabile. Non a caso, la campagna in favore dell’approvazione della nuova costituzione è stata massiccia come mai in precedenza poiché la decisione che i cubani sono stati chiamati a prendere è un vero e proprio referendum sulla continuità della politica socialista nell’isola. Secondo il politologo Enrique Lopez Oliva “il NO non rappresenta la volontà di mantenere la vecchia Costituzione ma la decisione di farla finita col governo socialista”.

Il nuovo testo fondamentale è stato discusso in 133.000 riunioni effettuate in quartieri, scuole, posti di lavoro, caserme e nelle campagne dove sono stati proposte centinaia di migliaia di modifiche. Esso stabilisce che “Cuba è uno Stato socialista di diritto e giustizia sociale, democratico, indipendente e sovrano” e che il Partito comunista «unico, martiano, fidelista, marxista […] è la forza politica dirigente superiore della società e dello Stato». Inoltre prevede un allargamento dei diritti individuali, come l’accesso all’informazione pubblica, un limite di cinque anni alle massime cariche e la divisione dei poteri con la figura di un Primo Ministro e del Presidente della Repubblica (con la costituzione del 1976 il presidente del Consiglio di Stato è sia capo del governo che dello stato). In più vengono riconosciute diverse forme di proprietà di mezzi di produzione (statale socialista, cooperativa e privata) e una serie di garanzie per gli investimenti stranieri. Tali modifiche permetterebbero all’economia cubana di decollare affacciandosi timidamente al mercato, pur senza abbandonare la propria organizzazione socialista (prospettiva resa quasi impossibile da una norma voluta da Fidel Castro ed approvata nel 2002 da un referendum popolare la quale sancisce che la costituzione socialista non può essere modificata in senso capitalista). Difatti, nonostante le suddette importanti “correzione”, la costituzione cubana continuerà a garantire uguali diritti ai cittadini, divieto di discriminazioni sessuali e razziali e sanità e istruzione a carico dello Stato.


FONTI:
Treccani.it
Il Manifesto
Internazional
e

Di Alessandro Macculi

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