Se io fossi un angelo

Uno dei brani più rappresentativi e caratteristici di Lucio Dalla è sicuramente “Se io fossi un angelo”.
Ciò che più caratterizza e distingue il cantautore bolognese è la sua capacità di risultare delicato e provocatorio allo stesso tempo, senza risultare mai aggressivo o eccessivamente pungente.
“Se io fossi un angelo” è l’esempio eclatante di quanto appena detto.
Il brano racconta di come Dalla si immaginerebbe nelle vesti di un angelo.

“Se io fossi un angelo,
Chissà cosa farei.
Alto, biondo, invisibile, che bello che sarei.
Sfruttandomi, al massimo, è chiaro che volerei”

Si immagina biondo, alto, bello e quanto più vicino al concetto canonico di angelo possibile.
Si immagina capace di volare, invisibile, tra le vite terrene.

Successivamente, pone in rapporto ossimorico rispetto alla candida scena appena descritta, due termini:

“Zingaro, libero”.

Dalla, da angelo, si vede libero fino allo stremo.
Libero di vivere tutto il vivibile, girovagando nel mondo senza una meta, con il mero gusto di scoprire – nomade, quindi, comune uno zingaro.

Girerebbe tutto il mondo, dalle zone devastate dalla guerra come l’Afghanistan, o dalla fame come il Sudafrica, fino alle zone più rigogliose e floride del mondo di allora come l’America, e “se non mi abbattono”, con i Russi.

Ma la grandezza di Dalla sta soprattutto nella capacità di saper affiancare con grande naturalezza il serio al faceto.
Difatti, la strofa successiva, diventa un po’ elemento di rottura rispetto al clima aulico costruito nelle strofe precedenti.

“Se io fossi un angelo con lo sguardo biblico vi fisserei,
Vi do due ore, due ore al massimo, poi sulla testa vi piscerei”

Qui Dalla spinge un elefante in una cristalleria, e l’elefante ci sta da Dio.
Ci sta da Dio perché non solo rompe l’atmosfera, quanto perché inizia a far permeare concretamente l’idea che avrebbe l’autore di sé stesso se fosse un angelo.
Un angelo che, quasi scazzato, piscia su tutto.
Sulle nostre teste, sui nostri traffici, sui nostri dollari, e sulle nostre fabbriche di missili.
Su tutto ciò che è l’espressione della futilità della vita terrena – o anche del contraltare marcio della stessa?
Continua, affermando, che se fosse un angelo, non starebbe mai nelle processioni, tantomeno nelle scatole dei presepi.
Sono contesti banali, noiosi.
Non sprecherebbe mai l’opportunità di essere angelo perdendosi in obblighi e doveri preconcettuali.
Preferisce, piuttosto, stare seduto

“Fumando una Marlboro, al dolce fresco delle siepi,
Sarei un buon angelo, parlerei con Dio,
Gli ubbidirei amandolo a modo mio.”

Qui probabilmente viene toccata la sfaccettatura più importante del brano.
Dalla si chiede che tipo di rapporto instaurerebbe con Dio, e in che modo potrebbe amarlo.
In un primo momento diventa quasi critico nei suoi confronti, si chiede il motivo del perdono concesso a “potenti e mascalzoni”, e afferma, di riflesso, verso l’altissimo “allora sbagli anche tu”.
Poi l’autore riflette sulle conseguenze di queste affermazioni.
Si rende conto che probabilmente sarebbe cacciato dal paradiso, e di conseguenza spedito all’inferno – “sarei un diavolo, e francamente questo non mi va”.
Si interroga quindi su cosa sia l’inferno, e deduce che, “a parte il caldo che fa, non è diverso da qui”.
D’altra parte, come si evince dal continuo della strofa stessa, Dalla è convinto che il mondo terreno sia pieno di angeli “buttati giù da un calcio”.
Asserisce, infatti, che gli angeli non siano nei cieli, “ma tra gli uomini” e che siano “i più poveri e i più soli”.

Sostanzialmente Dalla, tramite la figura dell’angelo, parla della bontà d’animo, svuotandola da luoghi comuni e ipocrisie.
È come se si dicesse stufo del concetto comune di bene, così ampolloso e fine a sé stesso.
Parla di un bene più rude, ma non meno efficace.
Parla di un bene che fa scaturire il dubbio, di un bene che si propone di ascoltare, di vedere e di conoscere tutto.
Di un bene che non si perde in canoni e convenevoli – presepi e processioni – ma che piuttosto si ritrova e si consacra nei gesti piccoli di chi ha poco – o di chi sarebbe legittimato a non essere interessato a fare del bene a qualcuno che non sia sé stesso, “i più poveri e i più soli”.
Tramite questo dipinto, di nuovo delicato e provocatorio, l’autore bolognese ci insegna come amare e come amarci, invitandoci ad essere zingari e liberi nel nostro vivere e viverci.
Finisce, poi, immaginando la rinascita di Dio fra gli uomini, riproponendosi pronto a servirlo.
Perché il dubbio sorto non si esautora nel conflitto, ma nella capacità di saper reinventare l’amore e il bene.

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