Lo scorso 18 settembre ho partecipato ad un incontro organizzato da Firenze RiVista, un festival che si tiene annualmente in città in collaborazione con case editrici e pubblicazioni letterarie indipendenti. Tra i diversi eventi che si sono tenuti nel complesso delle Murate, nello storico quartiere di Santa Croce, ho partecipato ad un incontro con Stefano Valenti, traduttore per Feltrinelli del romanzo Germinale di Zola e autore di due romanzi, La fabbrica del panico (Feltrinelli, 2013) e Rosso nella notte bianca (Feltrinelli, 2016). Valenti ha parlato del suo lavoro di traduttore e di come l’opportunità di tradurre un classico della letteratura come Germinale abbia costituito per lui una vera e propria “scuola” di scrittura: negli stessi anni in cui si dedica al lavoro su Zola, infatti, scrive il suo romanzo d’esordio, vincitore tra l’altro del Premio Campiello Opera Prima (2014), del Premio Volponi Opera Prima (2014) e del Premio Bergamo (2015).
L’incontro con l’autore mi ha stimolato ad approfondire il suo lavoro: mi sono procurato una copia de La fabbrica del panico e durante la lettura mi sono reso conto di trovarmi davanti ad un’opera di straordinaria sensibilità. Il tema portante del romanzo, quello della condizione dei lavoratori in fabbrica (classe sociale a cui appartiene il padre del protagonista), si intreccia a quello della salute mentale dell’io narrante, affetto da crisi di panico che lo confinano a casa. La condizione operaia nel romanzo non viene analizzata solo nel suo aspetto sociologico, ma anche su un piano strettamente più esistenziale: il lavoro in fabbrica con i suoi orari disumani ha infatti costretto gli operai a rinunciare al proprio tempo libero e alle proprie ambizioni. È il caso del padre del protagonista, che decide di rinunciare al suo impiego per dedicarsi alla sua vera passione, la pittura. Lo spettro della fabbrica, tuttavia, incombe: l’esposizione alle fibre di amianto gli ha causato un cancro ai polmoni che lo condurrà alla morte. È questo evento che spinge il figlio a ripercorrere la storia operaia della fabbrica del padre: l’incontro con il sindacalista Cesare e la partecipazione attiva alle battaglie degli operai lo porta infine ad un tardivo processo contro i responsabili della morte di decine di lavoratori, esposti per decenni alla malattia e alla morte, nonché a traumi e a crisi psicologiche che non sempre vengono messi in luce quando si affrontano questi temi.
Il sistema concentrazionario della fabbrica non tollera l’affermarsi di una volontà diversa nemmeno quando manifesta la propria presenza in forma di depressione.
Sicuramente questo aspetto più degli altri mi ha colpito durante la lettura: la capacità di Valenti non solo di raccontare il dramma della fabbrica con un tono secco e distaccato, per nulla enfatico o struggente (nell’incontro organizzato da Firenze RiVista dichiarerà di averlo ereditato proprio dal modo di Zola di raccontare vicende particolarmente drammatiche in Germinale), ma anche e soprattutto le ripercussioni psicologiche del lavoro alienante a cui erano sottoposti migliaia di operai e come questo si sia riflesso in modo significativo sulle loro stesse famiglie. Nel raccontare il momento della morte del padre, Valenti scrive:
Esasperato dalla malattia e dal disgusto nei confronti di un’organizzazione sociale che ha prodotto e produce un simile disagio, il suo odio, non soltanto di classe, è diventato la sua redenzione. […] Una vita, come un quadro, come una traduzione, termina quando a prevalere è il ribrezzo.
Non solo gli operai hanno risentito delle conseguenze del loro lavoro in tutti gli ambiti della loro vita, ma nel corso degli anni non c’è stato altro che un continuo disinteresse da parte della società, che col suo silenzio si rende inevitabilmente complice del dramma di migliaia di individui.
Non erano stanchezza, paura, sonno, fatica, povertà ad affondarlo nella disperazione, ma il disinteresse, l’indifferenza dimostrati dal mondo nei suoi confronti.
E ancora:
Gli operai sono una moltitudine mortificata, umiliata, disprezzata, derisa, guardata dall’alto in basso, detestata e tenuta in nessun conto.
Una volta terminata la lettura ho deciso di contattare l’autore per fargli alcune domande su questo suo romanzo, sul suo lavoro e sul panorama editoriale italiano. Ci tengo ancora una volta a ringraziarlo per la disponibilità a rilasciarci questa interessante intervista.
1) La fabbrica del panico esce nelle librerie otto anni fa. Credi che siano stati fatti passi in avanti sul tema della condizione degli operai da quando hai pubblicato il romanzo?
Le condizioni del lavoro di fabbrica degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta del Novecento, descritte nel romanzo, sono di certo mutate. Ma l’ordine della fabbrica è rimasto identico e si è diffuso in ogni ordine e grado della società. La fabbrica è ora dappertutto, in ogni manifestazione regolamentata del vivere sociale, in ogni manifestazione psichica. Siamo diventati fabbrica, siamo diventati tutti operai della grande fabbrica neoliberista, esseri fragili e senza diritti costretti a regalare il proprio tempo in cambio di oggetti prodotti e pagati con la vita.
[Nota: il concetto che qui viene espresso richiama a grandi linee il tema della “macchina” affrontato da Deleuze in diverse opere, tra cui L’Anti-Edipo o il suo saggio sulla letteratura di Kafka. Per approfondire]
2) Il protagonista del romanzo è un traduttore di professione come il suo autore. Quanto ha risentito la vicenda raccontata delle tue esperienze personali?
La fabbrica del panico è un romanzo di auto-finzione nel quale sono raccontate vicende autobiografiche alternate a vicende di finzione narrativa oltre che a vicende di non finzione che riferiscono parte della storia del movimento operaio. Trovare la forza di ricostruire nonostante gli attacchi di panico, è questa l’esperienza personale. Ed è questa la condizione nella quale l’io narrante de La fabbrica del panico si presenta al lettore, alle prese con un malessere che è indizio della morte del padre. Un padre che è stato operaio alla Breda fucine di Sesto San Giovanni, stroncato dal mesotelioma pleurico, il tumore causato dalle fibre d’amianto.
3) La Fabbrica del panico non è soltanto un romanzo attento alla problematica sociale delle condizioni dei lavoratori, ma un’opera che riesce anche a dare risalto al lato umano di ogni personaggio. Come sei riuscito a scrivere del disagio e del dramma esistenziale di migliaia di lavoratori e famiglie? Che effetto ti ha fatto?
Nei mesi, negli anni necessari alla redazione del romanzo ho frequentato il Comitato di iniziativa proletaria “G. Tagarelli” di Sesto San Giovanni e ho conosciuto le figure operaie che hanno costruito il racconto e dato vita alle figure narrate nel romanzo. In quel tempo ho inoltre saccheggiato la narrativa industriale italiana, il racconto e la storia del movimento operaio oltre che una memorialistica costituita da decine e decine di testi che sono serviti a dare corpo alle figure narrate. L’effetto è stato straniante, l’immersione nel mondo della fabbrica mi ha costretto a fare i conti con la mia storia personale che è diventata la storia di centinaia, migliaia, centinaia di migliaia di uomini e donne, protagonisti del boom economico italiano, rimasti con un pugno di mosche in mano.
La fabbrica è ora dappertutto, in ogni manifestazione regolamentata del vivere sociale, in ogni manifestazione psichica. Siamo diventati fabbrica, siamo diventati tutti operai della grande fabbrica neoliberista, esseri fragili e senza diritti costretti a regalare il proprio tempo in cambio di oggetti prodotti e pagati con la vita.
4) Lo stile narrativo in un romanzo può veicolare messaggi in maniera autonoma rispetto al contenuto del testo? A quali esigenze rispondono le tue scelte stilistiche?
La forma narrativa, oggi in via di estinzione, è stata sostituita dall’imperativo dell’intrattenimento che mette tra parentesi la fisicità della parola, della sintassi, del ritmo narrativo. Quando la critica ufficiale vuole parlare bene di un libro dice che è semplice, di facile comprensione. Come se rinunciare alla forma narrativa a favore di forme assimilate sia un valore estetico, un pregio. Questo distacco dalla forma narrativa è lo strumento grazie al quale le classi dominanti si tengono al riparo dalla complessità del mondo. Io non voglio essere didascalico, non voglio nascondere la complessità.
5) Negli stessi anni in cui lavoravi al tuo romanzo d’esordio traduci per Feltrinelli Germinale di Zola. Com’è stato rapportarsi ad un classico della letteratura e che cosa ti ha insegnato come autore?
Il momento apicale della mia attività di traduttore è arrivato trascorsi anni di riscrittura narrativa di genere e di saggistica politica, e si è manifestato nella reinterpretazione di una serie di testi dal forte impatto sociale e civile, prima fra tutte la ritraduzione per i Classici Feltrinelli del Germinale di Emile Zola.
Mi chiedo che ne sarebbe stato della mia attività narrativa se non avessi dovuto tradurre quei testi della migliore produzione civile europea e americana, che cosa ne sarebbe stato de La fabbrica del panico, di Rosso nella notte bianca, se non avessi tradotto Germinale.
Nel tradurre Germinale ho imparato a scrivere narrativa. La traduzione, la più approfondita modalità di analisi e comprensione del testo, è diventata il mio laboratorio di scrittura. Le regole della buona narrativa le apprendo copiando Zola, riproponendolo, facendolo mio. L’ossessione per la ricerca sinonimica, la cultura dell’identità del personaggio, la costruzione del progetto attraverso un’ampia raccolta bibliografica, sono tutte tappe di un cammino di apprendimento nel cominciare a scrivere La fabbrica del panico. Niente è lasciato al caso, niente è improvvisato, come Zola coi minatori, trascorro il mio tempo con gli operai della Breda ammalati di mesotelioma, ne assumo le necessità, costruisco la figura narrativa di mio padre dentro la vasta cultura del progetto di Zola, dentro il metodo di Zola.
6) In un’intervista a Left dichiari che “oggi nelle riunioni editoriali sono gli uomini del marketing ad avere l’ultima parola e a proporre prodotti di facile consumo”. Secondo te può esistere oggi un’alternativa praticabile a questo modello che guarda unicamente al profitto?
La cultura in questo paese non produce più dissenso, scandalo, antagonismo, è diventata consumo e merce e gli intellettuali hanno abdicato al proprio ruolo. Esiste un limite concreto alla pratica dell’alternativa poiché all’antagonista di questo modello è chiesto di pagare un prezzo personale mentre deve trovare da qualche parte il denaro per sopravvivere. E molto di frequente non resta altra strada se non integrarsi al modo in cui è organizzato il mondo del lavoro. L’opposizione, la contraddizione, è tenacemente riassorbita dentro il sistema. Non ho risposte pronte e non biasimo chi si fa irretire da questo sistema, ma la cosa non fa per me.
Quando la critica ufficiale vuole parlare bene di un libro dice che è semplice, di facile comprensione. Come se rinunciare alla forma narrativa a favore di forme assimilate sia un valore estetico, un pregio. Questo distacco dalla forma narrativa è lo strumento grazie al quale le classi dominanti si tengono al riparo dalla complessità del mondo.
7) Cosa possiamo aspettarci dai tuoi prossimi lavori da autore e in che linea si pongono rispetto a quelli già pubblicati?
In questo momento ho in cantiere due progetti narrativi. Il primo, Cronache della sesta estinzione, è un racconto del presente, di una condizione esistenziale ed emotiva precaria e del timore di una prossima sesta estinzione. Il secondo progetto, La prima vita, è un memoir sull’anno del lutto, il 2020, sull’anno del grande cambiamento.
Stefano Valenti è nato nel 1964 nella Valtellina, vive e lavora a Milano. Con il suo romanzo d’esordio, La fabbrica del panico (Feltrinelli 2013), ha vinto il Premio Campiello Opera Prima 2014, il Premio Volponi Opera Prima 2014 e il Premio Nazionale di Narrativa Bergamo 2015. Ha ancora pubblicato con Feltrinelli Rosso nella notte bianca (2016; Premio Volponi 2016). Per la collana Feltrinelli dei “Classici” ha tradotto Germinale (2013) di Émile Zola, Il giro del mondo in ottanta giorni (2014), Ventimila leghe sotto i mari (2018) e Viaggio al centro della Terra (2019) di Jules Verne.
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