Suicidio, la vita non compresa

L’amore è affermazione della vita fin dentro la morte

(Georges Bataille)

Il significato della morte.


Che senso può esserci dietro al suicidio? Da che cosa é spinto? É legittimo o é da condannare?

L’uomo ha saputo morire per amore, per odio, per ideali, e nella storia abbiamo avuto numerosi esempi di suicidi, ma cosa li accomuna? Cos’è che si fa spazio nella psiche dell’uomo?
James Hillman, filosofo e psicoanalista erede di Jung, nel libro pubblicato nel 1964 “Suicide and the soul”, con un rovescio di Medaglia, si interroga sul senso della morte, soverchia dogmi e pregiudizi e svela l’intreccio che lega la vita alla morte nel suo più estremo fenomeno visivo: il Suicidio,
Condannato e intriso di divieti morali, ce ne teniamo alla larga, rappresentando esso una delle possibilità umane, quella che sin da tempi immemori associamo al gesto più estremo di una crisi interiore, dimenticando che crisi, erede dell’etimo greco “krisis” significa scelta, e in termini più labili, cambiamento.


Il Suicidio e l’Anima


Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Il resto… viene dopo.” Albert Camus, Il mito di Sisifo, 1942
Il suicidio ha saputo mettere all’angolo l’uomo, il suo pensiero arreca disturbo, vorremo allontanare quella che in fondo é l’unica certezza in nostro possesso, il limite decisivo, per volgere in una determinata direzione le nostre azioni. La morte é quella verità che al tempo stesso non vuole rivelarsi.
Storicamente, l’ente che più si prendeva cura dell’uomo, la religione e per noi occidentali il Cristianesimo, riconobbe nel suicidio un peccato mortale, punibile con l’espulsione dal regno di Dio. Successivamente in un contesto laico e positivista, in cui pioniere si facevano strada le nuove scienze sperimentali, il suicidio è collocato tra gli studi psichiatrici, poiché affrancato dal credo e connotato come un mero atto folle. Lo stesso Esquirol, uno dei padri della psichiatria, espone così il suo punto di vista:


«Tutto ciò che ho detto fino ad ora, I fatti che mi hanno riferito, dimostrano che il suicidio presenta tutte le caratteristiche della pazzia, di cui non è che un sintomo, e non vi è alcun dato a favore dell’esistenza di un’unica causa del suicidio in quanto lo si osserva nelle circostanze più contraddittorie e perché esso è un sintomo secondario»


Allacciando il suicidio alla follia, lo volgiamo fuori dal desiderio libero dell’uomo, e alla luce di uno stato di “non compos mentis” leghiamo il gesto suicida ad un vuoto di senso.
Con le discipline a seguire, quelle statistiche e sociologiche, tra i cui massimi esponenti ricordiamo Durkheim (sociologo francese che si occupò di classificare i connotati dei fenomeni suicidari nell’opera “Il Suicidio. Studi sociologici”), abbiamo una classificazione vista dallo specchio del metodo rigoroso e scientifico, in cui l’individuo è dissolto per comprendere il fenomeno dal punto di vista della collettività.
Nel campo della medicina, Hillman sottolinea il rapporto del medico con il cadavere vuoto e muto per cui non si comunica che con il corpo; qui la morte del suicida non è diversa dalle altre morti, perché viene meno l’intenzione: difronte al corpo muto il medico tratta la semplice materia, giustificato in fondo anche da Sartre, per cui solo il suicida può conoscere le cause della sua morte.
Il suicidio per la legge e per la medicina diventa autodistruzione, e sono molti i termini che, con morsa metodologica, pongono il suicidio sullo stesso piano di tutte le morti naturali, sostituendo ‘suicidio’ e ‘morte’ con parole come ‘fine’, ‘cessazione’, restituendo l’idea di un uomo quasi automa, privo di una componente individuale, interna ed interiore.
Allora qui Hillman ci chiede: ci siamo forse dimenticati di quella nostra personale entità che, celandosi dietro cellule e tessuti, e appellandoci alla psicologia, é forse l’anima?
Che ruolo ha l’anima nella morte e nel suicidio? Se abbiamo desiderio di districarci dalle analisi sin ora raccontate, qual è la sua esperienza unica e individuale?
Hillman desidera riportare in auge il valore e la verità dell’anima, che nella sua ineffabilità pare sfuggirci sempre di più, e prendendo in prestito una sua opera postera del 1975 Revisione della psicologia cogliamo l’immagine poetica del suo dire dell’anima.
Sulla scia di Jung, in un gioco di simboli, immagini e miti, ‘anima é colei che personifica la nostra coscienza’, ovvero quel simbolo di solito associato al femminile che fa vivere gli avvenimenti come nostri.
E nel suo personalizzare l’esistenza, nell’assistere alle differenze tra vita interiore ed esteriore é bene chiedersi chi ha deciso frettolosamente che determinate morti siano “precoci”; difatti “sappiamo poco della senescenza delle piante e ancora meno del ciclo di vita umano”.
Il mistero della morte nella sua forma volitiva trova nella filosofia un aiuto, un’ancella che, sin da Platone considera la filosofia come “esercizio a favore della morte”.
I filosofi antichi hanno saputo chiedersi con coraggio che cos’è la morte; sapevano che nasceva con noi, che le orbite dei teschi son le stesse che possediamo, e appena la vita incomincia, noi siamo già abbastanza vecchi per morire.
E quando affermiamo che vita e morte sembrano essere opposti inconciliabili, perché se c’è vita non c’è la morte e se c’è la morte non c’è la vita, questo non sembra valere per la psiche: vita e morte non sono opposti psicologici. Assistiamo al suo desiderio di continuare a vivere quando anche difronte alla fine della vita fisica l’anima produce con i sogni immagini di continuità
<< Per la Psiche, né l’immortalità è un dato di fatto, né la morte è una fine >>
L’anima ce lo rivela, sembra estendersi oltre i limiti della materia, sembra stagliarsi all’infinito e non ne concepiamo la fine.
Per tradizione culturale veniamo meno a quelle vie che ci rivelavano dell’anima la sensazione di eternità, ma ancora sogni e psicosi costituiscono la via regia per comunicare con lei, ed è nella vita interiore che facciamo esperienza del suo macabro.
Sognare i defunti, aggressività, rabbia, desiderio di partire, di affogare nell’oceano, di cadere nel vuoto, ombre, entrare in una grotta …
Depressione, collasso, trance, isolamento, intossicazione ed esaltazione, fallimento, psicosi, dissociazione, amnesia, diniego, dolore tortura, senso di maledizione …
Tali stati possono essere sperimentati simbolicamente o concretamente e la morte é presente nella vita di tutti noi in quell’esatto momento in cui veniamo ad un eccesso.
Scopriamo allora che la dimensione della morte non è poi così antagonista alla vita, e nel loro implicarsi a vicenda, Hillman invita a prenderci cura della dimensione della morte come quella della vita, poiché ogni impedimento alla pulsione di morte ostacola la vita. Giungendo alla sua soglia, siamo lì che, come faceva Platone, guardiamo le orbite del teschio, e senza accorgercene costruiamo un tassello dopo l’altro la nostra morte.
Accogliamola, prima che sia lei a stringere noi, facciamo l’esperienza della morte prima di morire sul serio, in quanto é qui la vera dicotomia: morire col corpo non permetterà di esperire la morte. In questo senso, la sua intima essenza, é esperibile non dal corpo in declino, ma dall’anima che si abbandona fuori dal mondo. L’esperienza della morte é necessaria per potersi separare dal flusso collettivo della vita e scoprire l’individualità, e di nuovo, ci vuole coraggio per entrare nell’ignoto.
E allora la morte che cos’è se non una esigenza di vita?

Muoio affinché io viva


“Alcuni scelgono la vita perché sono spaventati dalla morte, e altri scelgono la morte perché spaventati dalla vita”


Vivere accettando sé stessi, assecondando il monito di Nietzsche, guardare ed essere divorati da quell’abisso che è la nostra intima essenza, di nuovo, richiede coraggio.
E se abbiamo citato i greci, Hillman riprende una antica conoscenza, un postulato che crediamo sia frutto dell’evoluzione della fisica moderna, quando invece torniamo alle Poleis greche del V secolo a.C dove si era ben consapevoli che nulla nasce e nulla muore, ma tutto si trasforma.
Vale per la materia che compone il mondo secondo gli antichi, vale per l’energia con cui la fisica quantistica svela i segreti del cosmo secondo i moderni, e anche se non volessimo accreditare realtà all’anima che ci dimora e viverla come eterna, proviamo a prendere metaforicamente questa antica saggezza:
La morte allora bussa alla porta allo scopo di consentire la trasformazione.
La vita come mi si presenta attualmente deve cambiare, ma in questo struggimento nel cercare di redimere qualcosa di me, e fallendo giorno dopo giorno, mi rende incapace di avere controllo sulla mia anima.
Quindi il suicidio ( la trasformazione ) diventa questione del corpo, perché la trasformazione allora tocca il corpo stesso. Siamo più padroni del nostro corpo, perché vedo nella materia i suoi effetti, e siamo giustificati a sovrapporre la sfera materiale a quella spiritual. In quella confusione di simboli ( linguaggio dell’anima ) le cose e la corporeità sono come avverse, e abbiamo la pulsione di distruggere tutto ciò é ritenuto male, ma in realtà é solo un bene.
Arrivati sin qui, per rendere l’esperienza di morte immanente bisogna accettare la realtà dell’anima per poter comunicare con essa. Le sue esigenze, le sue fantasie suicide liberano dalla visione usuale delle cose; parlando con quelle voci del “Piccolo Popolo” dentro di noi riusciremo ad ascoltare le esigenze ed esperire la morte senza morire davvero.
Hillman ci ricorda ancora una cosa: bisogna lasciare le speranze ed entrare nella disperazione, perché più si oppone resistenza al sentimento di sconfitta con la speranza, più il suicidio, bloccato nell’anima, cercherá nuovamente via di fuga nel corpo.
Serve abbandonarsi, chiudersi, diventare egoisti e raccogliere a sé la propria sofferenza; diventare come un seme, che completamente chiuso in sé stesso deve tenere fede esclusivamente alla sua natura per generare il proprio essere.
E tra gli antichi con la loro mitologia -forza trainante che porta avanti la psicologia del profondo- ci viene in aiuto il mito di Persefone, Dea rapita dal Dio Ade e discesa nelle tenebre, colei che difronte alla morsa ineluttabile della morte prima si abbandona e dopo impara ad amarla, fino a diventare lei stessa la regina degli Inferi.

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