Tra bombe e schiavitù digitale

Quando compii diciott’anni io, nel quasi lontano 2019, Matteo Renzi era santificato. Da un giorno all’altro, con non poche imprecazioni e file in Posta, ai maggiorenni spettavano di diritto 500€ da “spendere in cultura”: libri, biglietti del cinema, musica, mostre museali eccetera. Quantomeno questa era la teoria. Nella pratica, da bravi italiani, molti lo barattavano in contanti con le edicole. Sempre con l’innata capacità della politica di annientare ciò che di buono rimane, dopo il 2019 i cinquecento verdoni diventarono trecento. Oggi il fantomatico “bonus cultura” o, per i più, “18App”, è in un costante rinnovo precario. Tant’è.
A quelli che mercificavano il bonus renziano, però, molti altri si contrapponevano per un qualcosa fuori dall’ordo: usarlo per il suo scopo principale. Tra loro rientravo anch’io. Comprai CD, libri per il primo anno di università e tanti altri che con il senno di poi userei come carbonella per le grigliate, se non fosse per l’inchiostro dentro. Nella lista dei desideri di Amazon, in particolare, andavo e vado fiero di un titolo: “Schiavi digitali. Alienazione, narcisismo e controllo al tempo dei social network” di Riccardo Tennenini (https://www.amazon.it/Schiavi-digitali-Alienazione-narcisismo-controllo/dp/8885574262 ) filosofo e studioso contemporaneo. Oggi, a distanza di anni, mi accorgo come quel libro continui a perdurare in una tremenda attualità.

  1. Amadeus sfreccia con i Maneskin a bordo di un’Ape. Mario Draghi è incazzato perché al Quirinale non ci va. Mattarella è incazzato perché al Quirinale ci ri-va. Figliuolo, il generale-commissario plurimedagliato, riempie le farmacie di vaccini e tamponi. Il Covid-19 sembra svanire. Non fa, però, in tempo a scadere lo stato di emergenza pandemica, fissato al 31 marzo, che subentrano quello bellico e nucleare. A fine febbraio, la Russia decide di attaccare l’Ucraina. Le conseguenze le sappiamo già: noi di ParolAperta ne parlammo per due ore e mezza in una diretta Instagram. Lo stesso social, tuttavia, rientra nel vortice delle sanzioni adottate dai paesi occidentali-europeisti a scapito della Russia di Putin; lo spazio di Zuckerberg, così come il gruppo Meta, sarà disattivato in territorio russo. Ne consegue la chiusura di tutti i profili collegati e, tra questi, rientrano anche quelli da milioni di followers.
    Sblocco il telefono, e proprio questa mattina mi ritrovo su Twitter – social ancora neutrale – una serie di influencer (e non) russi in lacrime, con cartelli in mano e segni sul corpo, con pezzi di stoffa in bocca e urla a dir poco strazianti. Una scena raccapricciante, nel senso opposto. Specie se si pensi al perché: la chiusura di un social network. Scorrendo, trovo il video diventato in queste ore virale: “non pensate che Instagram sia solo una fonte di guadagno, perché Instagram è la mia vita, la mia anima. Mi addormento e mi sveglio ogni giorno da 5 anni”, così si legge nelle traduzioni sottostanti. Interviene poi una TikToker russa, Zhenya Alkhimova, altra influencer che piange in telecamera condividendo il pensiero delle colleghe, aggiungendo un quesito provocatorio ma alquanto bizzarro: “cosa mangerò? Che regali mi verranno dati al mio compleanno, carta igienica?”, riferendosi alla chiusura dei McDonalds in Russia e al blocco commerciale da parte di Apple.
    Insomma, pianti, tanti pianti, conditi da un senso di pochezza, smarrimento, pietà e vippismo da quattro soldi, con il mantra dell’ostentazione come caposaldo di ogni account circostante a ciò di cui si sta scrivendo. D’altronde, Instagram ha abituato così, e lo denunciava una serie di ex dipendenti da Facebook, inascoltati e licenziati, nel lontano 2012, a soli due anni dall’uscita del social. Quest’ultimo, Instagram, ha difatti vantato un primato che l’amico colosso Facebook non poteva detenere: la vicinanza alle quotidianità delle persone. E come? Innestandosi di prepotenza nel proprio smartphone. Se, per l’appunto, Facebook rimaneva confinato nei computer in casa delle persone, Instagram nasce e si sviluppa per mobile, con l’intento di creare un social network in grado di accompagnare l’utente in ogni suo frangente della giornata. Bastava aprire la home e scattare direttamente dall’applicazione una foto che sarebbe andata nell’immediato in rete; un’innovazione per chi, prima del 2010, i social li poteva usare solo per scrivere. Ed è qui che si viene a creare quella che in gergo viene definita come “trust strategy”: l’impresa decide, con una serie di manovre, di accaparrarsi la stima e la fiducia dell’utente, il quale sarà predisposto a concedersi ai servizi che usa. L’instagrammer posta contenuti, si fida, gli piace, e continuerà e chiederà sempre di più. Sino ad arrivare ai giorni nostri, con modelli di bellezza e stili di vita irraggiungibili ai più, promossi da brand e celebrity, fautori di minor rendimento scolastico, depressione, ansia, stress, anoressia e bullismo.
    Tirare fuori il telefono dalla tasca, scattare foto, registrare video, va però oltre il mero atto fotografico; fa parte, oggettivamente e paurosamente parlando, del nostro io. Alkhimova, infatti, tutti i torti non li ha. Con l’avvento delle Instagram Stories, il fenomeno dell’influenza sociale ha avuto un picco e una capacità di condizionamento operante mai visto prima. Con le storie, racconti la tua di storia, te, la tua vita, i tuoi momenti belli. Anche, però, i negativi. Il perché? Riusciamo a vedere chi e quante persone ci visualizzano. Ne segue, dunque, la fantomatica “frecciatina” social, provando sensazioni piacevoli a beneficio psicologico e ciò quando:
  • Molte persone guardano le storie;
  • La persona che ci piace visualizza il contenuto;
  • Facciamo più likes e commenti di quelli previsti;
  • Riguardiamo quante storie siamo riusciti a fare, compiaciuti (effetto Zeigarnik).
    Appare dunque normale come nel momento in cui persona X vede nostro contenuto Y, scatta una molla in testa degna di nota. Nel senso negativo, però, ne subisce una paura di essere tagliati fuori dalla società. Le storie Instagram, infatti, durano solo 24ore; se non posti, il tuo contenuto sarà reso visibile sempre più faticosamente, rimanendo estraniato da interazioni e ricondivisioni. In pillole: hai paura che le persone possano vivere esperienze memorabili senza di te. Senti, quindi, il non-obbligo di dover per forza pubblicare qualcosa, altrimenti “non hai nulla da mostrare” e automaticamente è impossibile tu ti diverta.
    Instagram è poi abitudine: ti svegli, controlli la home, ti lavi. Mangi, posti la foto, mangi. Aspetti fuori dal dentista? Apri Instagram. Sei in una situazione imbarazzante? Apri Instagram. Ti annoi? Aggiorni il feed continuamente. E’, senza andare troppo lontano, un uso equiparabile al vizio del fumo. Fumare è un gesto abituale, che riempie spazi della nostra giornata. Lo è anche Instagram. E quando non c’è, può generare nervosismo e panico.

Appare dunque semplice intuire come il titolo che Tennenini dà alla sua opera, calcando su “schiavi digitali”, sia più che azzeccato. Così come sostiene il filosofo, siamo alienati. E questa alienazione, dunque lontananza dalla realtà, è tangibile nel casus belli delle influencer russe. Instagram, in questo caso, è andato ben oltre la routine: è “la mia anima”, come si sente dire urlando. D’altro canto, il social non è solo emozioni, ma oggettiva opportunità di guadagno e dunque lavoro, tanto da crearne dei corsi di laurea in Italia e nel mondo al fine di diventare “influencer”. Noi stessi, noi ParolAperta, nasciamo e ci stiamo sviluppando con Instagram. Ma attenzione, “con”, non “grazie a”. Distinzione, questa, cardine del seguente articolo. A tutti gli effetti, Alkhimova e co hanno perso il lavoro. Estremizzare, però, quest’ultimo come “vita” e/o “anima”, ha dell’inquietante e mostra come sempre più spesso non si riesca (o non si voglia) ad utilizzare il social come mero strumento di lancio, aziendale o personale che sia.
Il social network deve essere uno strumento di ausilio, non l’unica fonte di sviluppo tantomeno di guadagno. Altrimenti rischierete anche voi di piangere perché vi regaleranno carta igienica al compleanno. E si sa, la carta igienica non è instagrammabile

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