Tra bufalo e locomotiva

Come mi sono pensato macchina, dimenticando che si può cadere.

Tra i miei appunti di Macchine a fluido c’è scritto chiaramente che la velocità di efflusso da un ugello non fa che aumentare man mano che si riduce la pressione a valle del nostro condotto. Questo fatto -molto utile nella costruzione di una macchina- avviene solo fino ad un determinato valore della suddetta pressione, e al di sotto di questo, cessa di essere vero.
Questo punto di svolta -che prende il nome di pressione critica– è un valore ben preciso, ottenibile attraverso attenti calcoli e prescinde, dunque, da qualsivoglia tipo di soggettività.

Così funzionano le macchine, così funzionano la matematica e l’ingegneria. Così, a furia di affrontare corsi di questo tipo, mi ero convinto di funzionare anch’io.
Mi sembrava, infatti, che scegliere un percorso universitario fosse molto simile a prendere un treno: ogni tipo di scelta veniva fatta a monte e per il resto tutta la strada -e i relativi tempi di percorrenza- erano già segnati.
Così era difatti anche per il fluido nel mio amico ugello: ci entrava, e io, e tutti, già sapevamo cosa aspettarci, la strada che avrebbe seguito e ogni suo singolo passo; potevamo aver previsto tutto già in partenza grazie ad attenti calcoli preliminari.

Mi venne facile allora, nell’elaborare il progetto della mia vita, approcciarmici come avrei fatto sul lavoro -una volta laureato- con qualsiasi altro progetto, e quindi con un preciso e oggettivo metodo ingegneristico.
Mi osservai, studiai, feci i miei esperimenti e i miei calcoli, le giuste approssimazioni, valutai il caso ideale per poi tarare con precisione quello reale. Applicai tutto quello che negli anni avevo imparato essere il rigoroso metodo scientifico. Il risultato fu nitido e chiaro, non del tutto gradito, ma uno, solo e oggettivo. Come avevo imparato, da A seguiva B, al massimo C in casi determinati, ma nulla era lasciato al caso: anche l’indeterminatezza aveva i suoi confini ben definiti e approssimabili. La mia vita, da lì, procedeva bella sicura: non sempre dritta, a volte curvava, talune altre approcciava dei bivi e sceglieva, ma se la si guardava dall’alto e da lontano aveva un percorso ben preciso e definito, proprio come le rotaie di una lunga ferrovia che ero portato a seguire.
E io -come i compressori, le pompe del corso che stavo seguendo- altro non ero che una ruggente macchina -una locomotiva- pronta a correre per la mia strada.

Il dubbio mi venne mentre ascoltavo quella Bufalo Bill di Francesco De Gregori che fin da bambino mio padre m’aveva messo in testa. Già, ‘sta roba che uccidere non lo si faceva solo per ammazzare, ma c’era chi lo faceva per rubare, chi per amore, chi per essere il migliore o addirittura per giocare, mi spiazzava e non poco. Perché metteva in mezzo tutta una serie di cose di cui la matematica si dimenticava, o quanto meno -considerandole approssimazioni trascurabili- ignorava completamente: le emozioni.
Ma l’illuminazione mi venne quando riascoltai che la locomotiva ha la strada segnata -e fin qui!- e poi invece c’era anche il bufalo; e lui può scartare di lato e cadere! Mi crollò tutto.
Avevo dedicato una gran parte della mia vita alla matematica, riponendo fiducia in essa in quanto metodo oggettivo, preciso, certo, antidoto contro la paura del non conoscere, per poi scoprire che tutte quelle regole non potevano essere applicate alla cosa che avevo più a cuore e che sentivo sfuggirmi di mano: la mia vita.

Fu lo squarcio -e al contempo la dolcezza- di scoprire l’esistenza dell’imprevedibilità. Questa era la più grande falla di ogni progetto che -da aspirante ingegnere- stavo mettendo su. Non te lo insegnano mai per bene, questo, tra quelle aule: ogni decisione, ti dicono, prevede un rischio di fallimento; poi, però, questo rischio te lo fanno calcolare: ecco di nuovo uno schema oggettivo, prevedibile, una strada segnata entro la quale chiuderlo. Ecco che non appena la locomotiva deraglia, subito è costruita per lei una nuova ferrovia da seguire, mentre la prateria continua ad essere un lontano orizzonte.

La routine non funzionava mai, ed era per questo: la routine era la mia ferrovia, scelta, che mal si adattava alle mie improvvise, a volte rare ma sempre decisive, cadute. Se sbagliavo, come il più arguto dei software di Google Maps, ricalcolavo in fretta il percorso, in modo che la mia destinazione fosse nuovamente raggiungibile nel minor tempo possibile. Non mi rendevo conto che al mio fianco c’era un’intera prateria: la ferrovia era la catena che me ne teneva lontano, o la guida per non perdermici dentro?
Mi facevano correre: le locomotive corrono e, in un range calcolato, non cadono mai; ma io ero un bufalo, e potevo inciampare pur camminando lento come una tartaruga.

Di tutto questo io mi ero convinto, ma mi meravigliava come per nulla convinto ne fosse tutto quel mondo che mi circondava: eravamo fatti per la prateria, lo spazio poli-direzionale, l’incertezza della vita che cambiava ogni secondo; eravamo affascinanti per questo, ma ci vedevamo ancora come noiose, performanti e veloci, locomotive. Non eravamo più abituati ad affrontare la paura.
E, alla fine di tutto, mi rimaneva un dubbio grosso quanto il mondo: se locomotiva non ero, e nulla poteva essere calcolato, come ce lo davo uno schema a quel guazzabuglio di cose che era la mia vita? Forse bastava seguire la ferrovia con la sola consapevolezza che ogni tanto si cade, e da quel momento tutto può cambiare. Forse bisognava solo far pace con l’idea che la vita non si potesse quantizzare: come è per qualsiasi tipo di infinito. Forse, infine, non ci avevo ancora capito nulla. La prateria, spesso, fa questo tremendo effetto.

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