Un fallimento chiamato Afghanistan

breve analisi di un disastro preannunciato

Era il mattino dell’11 settembre 2001. Quel giorno 19 uomini appartenenti all’organizzazione terroristica Al Qaida dirottarono quattro aerei di linea provocando la morte di circa 3000 persone e colpendo il cuore del mondo occidentale: gli Stati Uniti d’America. Il 7 Ottobre di quello stesso anno l’allora Presidente americano George W. Bush ordinò bombardamenti congiunti alle forze armate britanniche che diedero ufficialmente inizio alla guerra in Afghanistan (Operazione Sostegno Risoluto), una guerra che aveva originariamente lo scopo di rovesciare il regime talebano, vicino ad Al Qaida, per così evitare il proliferarsi di altre organizzazioni terroristiche e, ovviamente, annientare il nemico numero uno: Osama Bin Laden.


Solo vent’anni dopo si sarebbe conclusa una delle guerre più lunghe della storia contemporanea (cinque mesi più lunga della guerra in Vietnam), ma con un epilogo quantomai simile a Saigon: una completa disfatta. Gli Stati Uniti e parecchi membri della NATO (tra cui, ovviamente, anche l’Italia) hanno polverizzato una quantità spropositata di risorse, sia in termini economici che umanitari. Giusto per dare qualche numero, lo Special Inspector General for Afghanistan Reconstrution ha stimato che l’addestramento delle truppe, la costruzione delle scuole e la spesa per le infrastrutture abbia raggiunto la cifra di 143 miliardi di dollari. Considerando poi gli ingenti prestiti che Washington ha dovuto contrarre per finanziare le operazioni, i costi in termini di aiuti umanitari, l’assistenza ai reduci e le enormi spese operative si stima che questa guerra sia costata agli States ben 2.313 miliardi di dollari. Se poi a questi aggiungiamo più di 3000 morti della coalizione (tra cui 53 soldati italiani) possiamo capire come il bilancio sia piuttosto negativo, a fronte dei fatti delle ultime settimane. Infatti lo “straordinario successo” annunciato da Biden non fa che celare un fallimento innanzitutto ideologico e poi militare.


Il presunto Stato afghano è stato come un castello di sabbia, bello agli occhi della società occidentale e ottimo testimonial dell’ormai palesemente inefficace export democratico made in U.S.A., il quale è stato letteralmente preso a calci non appena il protettore a stelle e strisce ha deciso di ammainare la propria bandiera. Ma perché gli americani non sono riusciti a prevalere sull’avversario in un lasso di tempo così ampio? Eppure anche le notizie più recenti ci suggeriscono che loro le operazioni chirurgiche le sanno fare, e che hanno tecnologie assolutamente all’avanguardia.


Quindi da dove deriva questa disfatta, militarmente parlando? Innanzitutto è bene sottolineare che il ritiro delle truppe americane era già stato sancito con l’accordo di Doha del 2020 dall’amministrazione Trump (accordo che rimane tuttora molto discusso per contenuti e modalità); Biden non ha fatto altro che completare l’opera riuscendo tra le altre cose a distinguersi per disorganizzazione e assenza di controllo operativo. La ritirata è stata ad esempio pianificata ed attuata nei mesi estivi cioè in quella che potremmo definire “stagione dei combattimenti”, in quanto è il periodo in cui si sciolgono le nevi sui passi che collegano l’Afghanistan con il Pakistan (tenetelo un attimo a mente) permettendo così il transito di uomini, mezzi ed armi, con tutto ciò che ne consegue. Poi si può riflettere sul fatto che l’esercito afghano contasse su circa 350.000 uomini pazientemente addestrati dalla coalizione internazionale e con equipaggiamenti migliori rispetto ai più primitivi talebani, le cui forze si stimavano tra le 50.000 e le 100.000 unità; nonostante questo l’avanzata talebana ha avuto un’escalation rapida e concisa, assai spesso senza il bisogno di combattere.


Tra i fattori da considerare ci sono in primis le origini del popolo afghano, le cui radici affondano in secoli e secoli di storia, guerre e terrore. Effettivamente un’identità nazionale non è mai esistita, poiché il carattere tribale e capillare di questo martoriato popolo non è mai cessato di esistere e probabilmente gli stessi soldati dell’esercito regolare non hanno mai sentito quell’ardore necessario al mestiere delle armi. Pochi si sono effettivamente riconosciuti in un modello presuntuosamente imposto dall’alto, tra l’altro in un tempo assai breve soprattutto in relazione alla millenaria storia dell’Afghanistan. Ed è così che i soldati hanno smesso di combattere e hanno preferito la resa e la possibilità di sopravvivere alla morte, pensando probabilmente più alle famiglie che a uno non-Stato mai concretamente esistito, sentendosi traditi dagli angeli americani e dalla corrottissima alta gerarchia militare che loro avevano imposto (la quale non a caso è stata la prima a darsi alla fuga). Sono stati sottovalutati i colli e le montagne afghane ben conosciute dai talebani, l’incessante supporto del Pakistan (dove ricordiamo trovò rifugio e venne assassinato lo stesso Bin Laden) ma anche la tradizione militare mediorientale che preferisce la brutale “guerriglia”, cara ai talebani, rispetto alla guerra convenzionale mai interiorizzata dai soldati afghani alleati.


E ora? Non ci resta che guardare impotenti dinanzi alla regressione di un popolo, agli abusi sulle donne e sulle minoranze, alla violenza, ai sogni soppressi nel sangue… nella speranza che il destino sia, per una volta, meno crudele.

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