Un metaverso di deficienti

Quattro chiacchiere (non tanto) comiche sul metaverso

Questo siamo, dei deficienti. E no caro lettore, non fare quella faccia; è così. E ti dico anche il perché.
Mi sono accorto di esserlo quando, qualche giorno fa, ho parlato con una ragazza. E no, non ho detto nulla di compromettente o perverso, qualora te lo stessi chiedendo. Sai, quando una persona sembra avere sale in zucca ti colpisce, e nel momento in cui lei ti scrive lasci – per un attimo – ciò che stavi facendo. E l’ho fatto. Stavo leggendo un noiosissimo capitolo di diritto, quando mi è arrivata, dalla sua chat, una foto scattata ad un computer. Stava studiando il metaverso, ho sbirciato, zoomando come i peggiori dei ficcanaso. Sarà che non volevo perdere il filo del discorso (un attimo di distrazione da un libro di diritto vale un’ora di imprecazioni dopo), sarà che volevo atteggiarmi a guappo futurista, le ho risposto: “che figata”. Dopo pochi minuti, da una persona che effettivamente sapeva ciò che criticava, la risposta: “figata un cazzo”. Beh, si, figata un cazzo. Da quel messaggio in poi caro lettore, è inutile dirtelo, chiudere il libro ed iniziare un’accesa discussione era il minimo che potessi fare.
E qui, torniamo al titolo di questo articolo, riconoscendo finanche la ragione di quella ragazza: siamo dei deficienti. Dal latino, “deficiente” trova la sua origine in “deficiens”, participio presente di “deficere”, letteralmente “mancare”. E noi, di qualcosa – è evidente – manchiamo. Manchiamo di raziocinio. Non si spiega sennò. Non si spiega com’è che riusciamo, di anno in anno, a celare sempre meglio il nostro autolesionismo dietro lo scudo plastico del progresso. Pensaci: se la Apple, domani, mettesse il suo logo su un dispositivo in grado di fare la carbonara hi-tech con i wurstel, noi lo compreremmo. E saremmo pure felici, perché dai, è il futuro e sei stupido a preferire il guanciale ai wurstel di Cupertino. Progredire, però, significa muoversi verso qualcosa, possibilmente di nuovo, diverso, qualcosa di entusiasmante ed in grado di coinvolgerci come nient’altro prima. Eppure, quando sento parlare di metaverso, ovverosia – per generica definizione – “la trasposizione della realtà nell’internet”, mi si accappona la pelle. Non lo nascondo, a te che stai leggendo: ho paura, ribrezzo, rabbia, nausea ma anche un pizzico di satira. A tal proposito, Mark Zuckerberg, patronus di tutte le piattaforme digitali che usiamo per far vedere agli altri come ce la spassiamo (?), ha da ultimo articolato un discorso di senso compiuto sulla sua idea di mondo virtuale: “questo nuovo concetto di metaverso sarà guidato dalla realtà virtuale, che consentirà di teletrasportarci al lavoro, a un concerto o a una riunione di famiglia in forma di ologramma facendo risparmiare tempo, traffico e non incidendo sull’ambiente”. E chest’è, come direbbe Vincenzo Salemme. “Teletrasportarci […] a un concerto” … Ma te lo immagini? Entri in casa dopo una giornata di lavoro, la gente ti ha fatto incazzare, il pranzo a sacco faceva pietà e poi trovi lui, tuo figlio in piedi nel salone ad urlare e saltare. Con un casco in testa. E due “birilli” tra le mani. Nel silenzio generale della stanza. Sarà, ma io tornerei al lavoro.
Fa ridere, ma è una risata isterica. “Risparmiare tempo”, si legge nelle ultime battute di Mark. Ma risparmiare tempo difronte a che cosa? Cos’è che ci corre dietro? Perché abbiamo questa continua e insensata necessità di scandire ogni secondo delle nostre giornate? “Non incidendo sull’ambiente”, continua. Ma non sarebbe, forse, più opportuno pensare ad una riformulazione delle risorse energetiche, ad una seria normativa punitiva verso le più inquinanti multinazionali? Come pretendiamo, per di più in Italia, di aprire le porte ad un universo digitale quando ancora fatichiamo a normare fenomeni come il revenge porn, la frode informatica o il cybercrimine in generale?
Mi altero ancora di più quando, tranquillo e beato sul mio trono di ceramica, mi ritrovo a leggere una notizia tratta dal “The Blog of Palmer Luckey”, titolata “If you die in the game, you die in real life”. Chi avrà una discreta conoscenza dell’inglese avrà già capito. Si tratta, dulcis in fundo, di Palmer Luckey, fondatore dei visori Oculus che da ultimo emerge per aver creato un prototipo di visore VR che, nel caso in cui l’avatar di chi lo indossa muoia durante una partita, uccide il giocatore facendogli esplodere la testa con “moduli di carica esplosivi”, tutto ciò al fine di “legare la propria vita reale al proprio avatar virtuale” e “migliorare l’esperienza di gioco”.
Morale della favola? Certa compagine scientifica ha trovato “avanguardistica” l’idea.
Ebbene, per me, il progresso non è questo: come si può parlare di progresso pensando ad ognuno di noi dentro la propria stanza, al buio, a fare versi e a gesticolare? Secondo questa rappresentazione, cos’avremmo di tanto diverso dall’homo habilis di un tempo, chiuso in una grotta? Il progresso, per me, si concretizza in uno degli ultimi post di Clementino, ritraente una ragazza con le gambe paralizzate ma ora in grado di camminare grazie ad un esoscheletro cofinanziato dall’Europa. Queste sono le belle notizie, questa è la bella tecnologia, quella gestibile dall’uomo e pensata per aiutare quest’ultimo, non per sovrastarlo.
Amici, sarò romantico, analfabeta digitale, obsoleto e rozzo, ma ad un “metà-verso” preferisco l’interezza del mio universo, un universo con il guanciale e non i wurstel della Apple, un universo dove ai concerti ci vai davvero, sudi per davvero, perdi la voce per davvero e ti perdi, per davvero, con i tuoi amici tra la gente, toccandola. Preferisco un universo dove le “riunioni di famiglia” avvengono gridandosi addosso, con la possibilità di mandarsi a fanculo e vedendo, per davvero, il sorriso che ci sta dietro quel gesto. A lavoro preferisco andarci, sbuffare nel traffico e ingegnandomi per sorpassare i lenti a prima mattina. Preferisco giocare alla PlayStation con mio nipote e dirgli “è solo un gioco”, anziché vedergli esplodere la testa dopo essere sbandato su una banana a MarioKart.
Preferisco vivere, perché ad un bacio dato per davvero non c’è computer che tenga.

N.B.: questo articolo vuole essere una riflessione ironica – ma neanche tanto – sul concetto di metaverso sviluppato negli ultimi anni. Non vuole essere, nella maniera più assoluta, un testo dalla valenza scientifica in grado di snocciolare, con fatti concreti, il mondo reale digitalizzato. Pensatela come una chiacchierata d’estate tra amici, in riva al bar. Vivetevela.

2 risposte

  1. ho letto con estremo interesse e condivido pienamente questa tua chiara e arguta riflessione. La tecnologia è nata per sostenere l’uomo, non sostituirlo; si è sviluppata e per fortuna ancora migliorerà per garantire il funzionamento di nuove applicazioni mediche importanti ( senza di essa non avremmo laser a eccimeri nè tomografie a emissione di positroni…) Ma una parte di essa è stata recepita da alcuni solo a scopo di lucro alimentando pigrizie umane e deviando quella che è la ludica creativa naturale dei bambini. Cosa che in adolescenza si trasforma in dipendenza totale nei confronti di smartphone e pc che dovrebbero invece permettere solo una più larga diffusione della cultura e del pensiero soggettivo condividendo con amici e sconosciuti oltre il raggio della propria città. Mi spaventa non poco la tendenza che hanno molti a vedere lo sviluppo tecnologico come un annientamento della quotidianità vissuta su pelle diventandone un pessimo surrogato. Hai pienamente ragione, è preferibile accettare una coda in tangenziale per andare al lavoro piuttosto che anchilosarsi su una sedia in smartworking a vita col pigiama addosso e sciabattando per casa anche nel tempo libero attendendo la consegna della cena alla porta ordinata online anche quando fuori e dentro sei sano e potresti tranquillamente fare due passi. E andare a un concerto al cinema o una festa con amici o col compagno/a del cuore che prevede poi un passaggio in birreria non ha bisogno di surrogati. Restare umani è indispensabile per la nostra salute mentale e non solo, anche se abbiamo anche bisogno di cure e supporti che solo la tecnologia può offrire. Mi permetto di condividere il tuo post che ritengo meritevole di lode.
    Buona giornata 🙂

  2. Sembra che “progresso” significhi “faccio tutto senza muovere il c*lo dalla sedia”.
    Si “socializza” senza incontrarci, ci si “parla” senza emettere suoni.
    Tutto ciò è abominevole e completamente sbagliato.
    Anche perché chi professa questo credo, fa vite normali e non da recluso.
    Vorrebbe che i reclusi fossimo noi.

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