Voglio essere una femmina, come Michele Bravi

Una sera, seduta ad un tavolo, ho scoperto di non essere per nulla una donna.

Sedevo di fronte a un paio d’occhi, i primi che ho amato, e proprio da loro ho appreso la più felice delle verità: io, per quello sguardo, non ero mai stata donna.

Mai una gonna, non un bel paio di tacchi.

Mai un vestito elegante, quell’accortezza in più tra le coperte.

Non uno sguardo ammiccante, mai un gesto suadente.

A vent’anni, seduta ad un tavolo, quel paio d’occhi che non mi meritavano, mi hanno risolta: io non ero donna perché tutta quella roba da donne, non ero mai stata capace a farla mia, a sentirla parte di me.

Ci voleva così poco. Anni e anni di studi di genere e in realtà avevo solo bisogno che un uomo mi educasse su cosa significhi essere femmina, sentirsi donna.

E così, da quel momento, edotta com’ero, ho scelto per me solo vestiti che mi calzassero a pennello. Che disegnassero per me dei contorni virili: tali dovevano essere i miei, per come mi era stato detto. A ché le gonne che mostrassero un paio di gambe troppo magre, a ché una scollatura troppo ampia, se nulla c’era da mostrare? A ché amare un uomo tra le coperte se le mie mani erano troppo insicure, poco femmine?

A ché avere una personalità, una storia, cercare di raccontarti a un altro, se lui conosce già chi sei e chi dovresti essere. Se esiste un protocollo da seguire, una lista da spuntare, per dimostrare a qualcun altro che tu sei giusta nel modo in cui sei fatta, perché ti disegni entro confini specifici, il tuo colore è tutto dentro quei margini già prefissati e rispetti l’ideale di donna, uomo, bambino, essere umano, che i più si sono imposti.

A vent’anni ho scoperto di non essere una donna ed è stata la notizia più felice che mai avrei potuto apprendere. Perché poi mi sono messa in discussione, con umiltà, e mi sono chiesta cosa significasse davvero essere donna; quale fosse il significato di questa parola tanto stropicciata da bocche che pretendono di conoscerne il senso. Che vuol dire essere tutta femmina?

Finalmente un altro uomo mi è arrivato in soccorso.

Vittorio Umberto Antonio Maria Sgarbi, critico e storico dell’arte, saggista e anche politico, è entrato nel mio salotto in una domenica pomeriggio e circa un anno dopo dalla nascita del mio dilemma, ha trovato per me una risposta.

Essere ‘tutto femmina’ significa avere il coraggio di mostrarsi nudo, vulnerabile, creativo, sincero, gentile e umile, come fa Michele Bravi.

Da quando mi ha fatto regalo delle sue parole, Michele Bravi è per me ciò che Beatrice doveva essere agli occhi di Dante, un’ispirazione. Un essere magnanimo, gentile, che solo esistendo insegna.

Ho imparato molto da questo ragazzo, che mi è diventato un amico, quasi un familiare, pur non conoscendolo di persona. Ho imparato molto, da lui, e nel momento in cui più mi sentivo vulnerabile.

Mi ha dimostrato, Michele Bravi, che il dolore è uno strappo che ti isola, allontanandoti da tutto ciò che conosci, ma che per ritrovare una geografia, nel buio, a volte basta solo una mano gentile che sappia guidarti nell’orientamento. Mi ha insegnato che il buio, così come il silenzio, “quella grande u metallica pronunciata da qualcuno con cattiveria”, può fare paura, ma che è proprio al buio che si fa l’amore, si raccontano le storie, si nasce e si vive. Che il dolore trova sempre uno spazio nelle nostre vite e che parla la stessa lingua per tutti; che è come un grande labirinto e solo mettendolo al centro di una stanza, condividendolo con gli altri, se ne possono sistemare i tasselli per trovare un’uscita.

Mi ha educata all’importanza delle parole, perché è con quelle che noi scriviamo la nostra storia, e da lui ho capito che anche quelle più leggere possono avere un peso da sostenere, enorme.

Io non so parlare d’amore, sessualità, identità di genere. Non so parlare di fluidità, femminilità o mascolinità: sono come sono, sono chi voglio essere; delle etichette, io, me ne intendo ben poco. Sono umile, vorrei ma non posso discorrere su cosa in questo mondo sia necessario considerare un’offesa e quali siano le parole che invece vogliono darti una carezza. Non ne so nulla di pronomi e di neutralità di genere, sebbene ogni giorno cerchi di scoprire qualcosa in più, perché è giusto, perché è importante, rispettoso, umile. Sono ignorante in materia e tali discorsi non saprei proprio come affrontarli e da dove cominciare.

Però una cosa, io la conosco.

Conosco le parole, sono la cosa più cara che ho. Riconosco chi sa prendersene cura, chi sa usarle con gentilezza per regalarsi agli altri, chi non si nasconde dietro di esse ma a parole scava dentro di sé, rende le ferite più profonde, perché quelle aperture diventino squarci da cui far entrare la luce. Riconosco chi sa dare il giusto peso alle parole perché per lungo tempo non ha potuto ascoltare altro che il silenzio, riconosco chi sa accarezzarti, prenderti per mano, dimostrarti l’amore in quell’unico modo che conosce.

Ci ha messo tanti anni, Michele Bravi, per trovare le parole giuste per raccontare il suo amore per un ragazzo.

Ci è voluto del tempo, per ritrovare la voce e farla uscire fuori, con paura e delicatezza; ci è voluto del tempo perché potesse regalarci la sua storia a parole. Per regalarci chi è, chi ama, chi ha amato, i momenti che ha vissuto. Ben venga, allora, se per farci questo dono -quest’atto d’amore e fede- si sia espresso con le parole di qualcun altro, cucendosele addosso, adattandole alla sua storia come se fossero un vestito, per raccontare sé stesso e gli altri in un tempo. Ben venga se lo sguardo di Battisti, per una volta, ha cambiato prospettiva, contemplando una nuova possibilità, una storia nuova, diversa e simile a quella raccontata. Ben venga se per una volta, una, ‘uomo’ e ‘donna’ non restano l’unico metro di paragone, l’unica via possibile per raccontare l’amore, se io, se voglio, posso leggerci di un paio di mani che difendono un viso nel letto, un lucchetto di carne che lo tiene ancorato alla realtà, per l’ultima volta. Se ci leggo il dolore di un addio, l’incertezza di un amore che non può essere vissuto, e forse, un’intima promessa.

Quando lui se ne andò, per esempio

Trasformai la mia casa in un tempio

E da allora solo oggi non farnetico più

A guarirmi chi fu

Ho paura a dirti che sei tu

Ora noi siamo già più vicini

Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi

Ben venga se io posso ascoltare queste parole e sentirle mie, se qualcuno può indossarle al mio posto, a modo suo, se possono essere universali, raccontare la mia storia e allo stesso tempo quella di Michele Bravi, dei suoi nonni, di una donna ferita che pur continua ad amare, di un uomo che ama un altro uomo, in un letto, nel modo più puro e più gentile che si possa concepire, di due anime che si sono conosciute in un’epoca lontana e hanno lasciato il mondo insieme, per mano, dopo averlo visto cambiare.

A ché avere un vocabolario così ampio, così ricco, se poi non possiamo giocarci, modellarcelo addosso, scolpirlo per creare figure sempre nuove, una nuova arte, inclusiva, universale, che racconta la storia dell’uno e di tutti in un solo momento?

A ché interrogarsi sul senso delle parole, su cosa significhi essere donna, ‘tutto femmina’ e scoprire che queste parole possono avere per ognuno di noi un significato diverso, se poi non siamo liberi di scegliere il senso che meglio ci descrive?

A ventun anni Vittorio Sgarbi, critico d’arte, ha trovato una risposta ai miei interrogativi, e ora so che quel ragazzo che io ho amato un anno fa, aveva ragione: io non sono una donna.

Io sono esattamente quel ‘tutto femmina’ con cui Sgarbi ha voluto definire Michele Bravi, riconoscendo in lui un vero artista. Perché se è vero che la parola ‘donna’, solitamente, non indica altro che un essere umano di genere femminile che abbia raggiunto la maturità anatomica e quindi l’età adulta, allora aveva ragione lui: esistono parole migliori con cui descrivermi. E sarei onorata, se tra di esse, si scegliesse il termine ‘femmina’, perché se fossi tutta femmina anch’io, come Michele Bravi, mi sentirei l’essere umano più speciale mai concepito in terra. Perché viene dal latino ‘femina’, che a sua volta ha la stessa radice del termine ‘fecundus’, che significa fecondo, non sterile. E in quella sua assenza di aridità, Michele, m’insegna ogni giorno a essere me stessa, donna per come sono e per come voglio. M’insegna a stare al mondo a modo mio e a restare, sempre, umana.

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