Voglio un amore come Monet

A una manciata di chilometri da Parigi c’è un posto di nome Giverny, dove il tempo pare essersi fermato e anche la luce, per gli spettatori più attenti, produce un suono. Un posto in cui alberi e cielo parlano una lingua primitiva, dimentichi della necessità di farsi comprendere. 

Un signore distinto, con cilindro in testa e occhialetti tondi, è seduto di fronte a un cavalletto. Con lo sguardo fisso sullo stagno che ha davanti, imperturbabile, dipinge. Pennellate morbide, distese, poi più rapide e violente si affastellano una dopo l’altra sulla tela, non lasciandole alcuno scampo. 

Quel signore è Claude Monet, padre dell’Impressionismo, e nella sua villa di Giverny, guardando quello stesso stagno, ha dipinto oltre 250 quadri, tutti con lo stesso soggetto: le ninfee.

Cosa c’entra Monet con l’amore, vi starete chiedendo. Per dare una risposta a questa domanda è necessario porsene prima un’altra: che cos’è l’amore?

Amore è pazienza, dedizione, consapevolezza. Amare vuol dire essere in grado di guardare una stessa realtà innumerevoli volte e trovarci sempre una sfumatura diversa, un particolare che era rimasto in ombra e che improvvisamente salta agli occhi e introduce una nuova prospettiva. Prospettiva: è questa forse la parola che più di tutte accomuna l’amore e la pittura. L’osservatore di un quadro non conosce ciò che esso rappresenta se non dalla prospettiva del suo autore. E chi dipinge non raffigura mai lo stesso soggetto nel medesimo modo. Se il prodotto della pittura è immutabile, il pittore è inevitabilmente preda delle sue emozioni, del contesto in cui vive, dello scorrere del tempo.

Nei dipinti di Monet, questo è lampante. 

È quasi un’ossessione, quella che si manifesta nelle centinaia di tele che ci ha lasciato. L’artista è innamorato delle sue ninfee, nel senso più puro del termine.

Nei primi tempi, è entusiasta di passare in loro compagnia interi pomeriggi d’estate; ne delinea ogni singola foglia con precisione e cura, aspetta con trepidazione la fioritura, ne resta incantato. Arriva a conoscerle approfonditamente come nessun altro. Ma proprio quando pensa di aver colto tutto il possibile delle sue ninfee, ecco che l’estate passa, la luce che filtra obliqua dai rami si fa più flebile e anche le ninfee mutano inspiegabilmente forma. Quelle ninfee che Monet credeva di conoscere in ogni dettaglio, le sue ninfee.

Cosa fa allora, adesso che il suo impegno sembra non aver portato a nulla? Assolutamente niente. Non rimane deluso, il suo sentimento non si spegne quando scopre un mutamento. Continua a dipingere ninfee, ma con una consapevolezza in più: anche ciò che amiamo e che crediamo di conoscere alla perfezione è soggetto al cambiamento.

E se facciamo ancora un passo più in là, vedremo che il modo di dipingere dello stesso Monet è in continua evoluzione. Guardati superficialmente, i suoi dipinti possono sembrare tutti uguali, ma la verità è che lo stato d’animo del pittore emerge prepotentemente, ogni volta con una sfaccettatura diversa, da ognuno. Così come le ninfee cambiano, cambia costantemente anche colui che le rappresenta, in un equilibrio precario e sconvolgente per chi lo prova che i più denominano Amore. 

È questa l’eredità di Monet: insegnarci ad amare.

Da qui, anche il titolo di quest’articolo: “Voglio un amore come Monet”. Sì, voglio. Perché, se è vero che l’amore non si ricerca, è provato che non sia solo farfalle nello stomaco e prime volte. L’amore è anche e soprattutto volontà. Bisogna esser pronti a riconoscerlo quando arriva, l’amore. E per questo ci vuole una grande voglia di mettersi in gioco: non tutti sono pronti a porre in discussione le proprie certezze per un’altra persona.

E voi, siete pronti? 

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