Cambio di stagione

Era un’ora che vagavo in mezzo alla gente.
Un’ora che vagavo per le strade del centro di Roma, a mezzogiorno in punto di in un giorno di fine marzo, con uno zaino pieno di libri e altre sciocchezze in spalla, le occhiaie in viso come ricordo di una notte insonne e una sola cuffietta nelle orecchie.
Nascondevo l’urgente bisogno di stare appresso ai miei impegni, dietro ogni angolo appena svoltato, in una strada appena conclusa.

Ero, in realtà, alla ricerca disperata di qualcosa che desse un senso a quel vagare incompleto. La cercavo freneticamente, tra il caldo di un autobus strapieno, le margherite calpestate nell’aiuola, tra gli sbadigli e l’odore del caffè fuori dai bar.
Portavo addosso una sensazione di parzialità che avevo necessità di colmare.

Mentre camminavo sotto lo sguardo perplesso della gente -indossavo una sciarpa con venticinque gradi all’ombra- mi rendevo conto di aver bisogno di eclissarmi completamente nel frastuono della città. Volevo divenire parte inscindibile di esso.

Avevo voglia di infilarmi tra le file del traffico e camminare in mezzo alla strada, di parlottare con gli autisti degli autobus durante le loro pause ai capolinea, di entrare in un bar, ordinare un caffè e dire “buongiorno come sta?” al barista. Volevo andare in libreria, scegliere tanti libri e non comprarne nemmeno uno, passare vicino Termini e osservare i gesti e le voci di chi viveva lì. Avevo voglia di lanciare un sorriso a qualcuno senza paura, di dire “buongiorno” a caso, in tutte le lingue che conoscevo. Immaginavo di essere qualcun altro: quella vecchietta con le buste della spesa, la ragazza che passeggiava con il cane, il rider che mi sfrecciava accanto con una bici malmessa… Cosa avrei provato stando nella loro testa e vivendo la loro vita? Mi piaceva immaginare i loro vissuti.

Provare tante cose, forse, avrebbe respinto la monotonia che mi sembrava di vivere, la costante sensazione di essere sulla soglia della vita.

Ma non funzionava mai appieno.
La varietà apparente della città mi dava nausea.
La mia varietà apparente lasciava spazi vuoti, buchi d’aria come buche sull’asfalto, che se inciampi, ti fai male.

Era un giorno affollato. Ma perché c’era così tanta gente? Cavolo era venerdì! Che sbadata. Lo scivolare veloce delle ore mi aveva trascinato con sé al punto da cancellarne la reale concretezza.
Lo scivolare veloce delle genti, dei luoghi, dell’oscillazione del giorno mi facevano perdere le staffe.
E nel frattempo Roma cambiava e nessuno se ne accorgeva: io guardavo i rami fioriti di un qualsiasi albero in una qualsiasi via pensando che fosse il più bello del mondo e chiunque ci passava accanto senza farci il minimo caso. Io osservavo il cielo e il movimento delle nuvole e vedevo chiunque cercare affanni nelle tasche dei pantaloni, tra le cose sparse nelle borse.
Guardavo i palazzi, parevano più accoglienti; le finestre spalancate quasi fosse un invito ad entrare per la primavera imminente. Io mi sforzavo di andar piano, di mettere da parte frenesie ingiustificate, eppure chiunque intorno urtava la mia vita, rubando secondi di tempo da aggiungere alla loro, quasi fosse una collezione.

Vedevo il cambiamento della città che nessuno, invece, sembrava vedere. La rassicuravo, le facevo compagnia; essa mi ringraziava e al tempo stesso mi allontanava da sé.

Ero sempre a tanto così dal mimetizzarmi, a un passo di distanza dal distinguermi.

L’avevo trovato ciò che cercavo, ma proprio il frastuono e il cambiamento che bramavo di vivere, e la vitalità esasperata di Roma, mi tenevano invece lontana, creando come una cappa invalicabile tra me e la città.

Era un’ora che camminavo, forse di più, e iniziavo a sentire un po’ di stanchezza.
Era una città in eterno movimento, ma continuamente ripetitiva, tanto da apparire immobile.
Solo un cambio di stagione riusciva a scuoterla un poco, ad alterarla. I colori prendevano vita da sotto l’asfalto delle strade grigie, dal sudiciume dei marciapiedi, dai muri scrostati delle case. Il bello si mischiava al brutto, si perdevano entrambe uno dentro l’altro senza più limiti concreti; si avvincendavano in base alla luce del sole, variavano in base alle ore del giorno. Il chiasso alternato al canto degli uccelli. Un uomo sul ciglio della strada circondato da fiori profumati.
Io ero quella città. Sentivo di assomigliarle. Le sue contraddizioni erano le mie.

Avevo davvero bisogno di un cambio di stagione per sentirmi cambiata? Forse si. Dovevo vedere il mondo intorno a me mutare affinché potessi riconoscere d’esser mutata anche io? Forse sì. Da sola non so cambiare niente. L’inadeguatezza che mi circonda, quella si, può farmi sentire adeguata. Può farmi sentire di essere la parte mancante di qualcosa che, in realtà, non mi appartiene.

Era la mia città a mettere un freno tra me e lei, ancora di più quando tutto diventava volubile, quando arrivava la primavera e le nostre somiglianze si sfioravano.
Quando i miei e i suoi fiori, fiorivano.
Alla fin fine, mi pareva d’esser sempre uguale, non all’altezza di cogliere punti fermi ma solo di sentire un ammasso indefinito di cose. Come il frastuono di quella città, indefinito, ridondante. Come un cambio di stagione che cambia il mondo dentro e fuori di me ma appanna le finestre del mio corpo. In fin dei conti, andava bene vivere così. Eravamo distanti, io e lei, ma in realtà ci assomigliavamo più di quanto potessimo immaginare.

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