Mi piacciono le vecchie finestre in legno, con le tende tutte bianche e pesanti, così finemente ricamate da poterle indovinare parte di un qualche vecchio corredo di sposa. Mi piacciono quelle finestre della mia città, incastonate nella pietra gialla col petto e ‘l crine orlato di gerani rossi. Quelle curve su Santa Croce, mi piacciono, fatte d’archi e intrecci capricciosi sul balcone.
Le finestre dalle luci già accese quando non è ancora sera, quelle le guardo sempre, a tende aperte o chiuse, e immagino vite lì dentro, mentre fuori é ottobre.
Mi piace la finestra di Olivia; quella non l’ho vista mai, però se chiudo gli occhi la so immaginare: volute d’ottone vecchio, nero, che toccano già il cielo là fuori. Oggi è grigio e dalle nuvole pensanti, e domani chissà quale colore avrà. Fuori il giorno tramonta e si vede la collina; dentro, invece, una scia d’incenso si perde tra i ricci biondi di un cuore a me familiare.
A Parigi amavo le finestre.
Esiste un’economia dello spazio, a Parigi, per cui una finestra non é più solo una finestra, dal momento che é bella e finita. É la vetrina su cui appoggiarsi per guardare la città frenetica da dentro, un dehors di classe sempre abbastanza spazioso per un tavolino e due sedie: il luogo perfetto per leggere un libro, fumare una sigaretta, bere un mezzo quinto. La mia preferita era a Malesherbes, vicino al termosifone che mi riscaldava le mattine del martedì, prima della lezione di letteratura latina umanistica. Da lì guardavo gli altri nel cortile, i tetti blu del quartiere e la caffetteria, il posto in cui ho passato più tempo con Flavia. E quando dovevo lasciare quella finestra, mi piaceva ritrovarmi da qualche altra parte, seduta con un libro in mano e un vetro tra me e la strada lì fuori.
La mia finestra preferita non é quella della mia camera, ma quella che ho difronte quando le mie tende restano aperte.
É una finestra vecchia, dalle imposte in legno. La luce é sempre accesa e quando fa vento, le lenzuola stese sul balcone schiaffeggiano i gerani rossi ma nessuno li sente. E le tende, bianche e pesanti, sono sempre aperte, sempre chiuse. È una finestra di Lecce questa, eppure potrebbe abitarla bene Parigi, perché ha sempre spazio per una sedia e due persone. E sa ospitare lunghe chiacchierate tra una nonna e il nipote, cose romantiche come non se ne vedono più. A questo appuntamento che ormai é anche il mio, lui arriva sempre puntuale, al momento del giorno in cui la luce é più bella e ancora non é sera.
Poi c’è il vetro della tua auto che per me é come una finestra. Funziona se lo dico così? Funziona lo stesso anche se proprio una finestra non é?
Della tua auto mi piace tutto, anche se é così disordinata, con tutte quelle cose di te che lasci sempre a pezzettini sotto al sedile e sopra il cruscotto. Mi piace lo stereo che tra gli altri ha anche il tuo nome scritto sopra, e mi piace leggere i titoli della musica che scelgo per noi mentre dal vetro guardo il mare che ci viene di fronte. E mi piace guardarti mentre guidi e mi canti ‘quanto siamo bravi a fingere di non provare sentimenti, e che siam felici come pasque, sì, ma pasque del duemila e venti’. Mi piace sapere che qualsiasi canzone sceglierò, tu canterai con me, e mi piace sapere che alla fine sceglierò sempre di cantarti ‘La storia infinita’ di ‘Un altro amore’, per poi ‘Ridere’ con te mentre mi chiedi: ‘aspetta, aspetta, aspetta. Com’è che fa?’.
É una finestra, quella della tua macchina, che chiusa o aperta non mi fa differenza, perché aperta mi lascia addosso tutto quel vento e la sabbia e la salsedine che adesso non mi raccontano che di noi sulla litoranea di quel mare che é il mio. Ma quando é chiusa non trattiene dentro null’altro che la nostra amicizia, l’unica cosa che adesso che la finestra di camera mia é chiusa, e tu non ci sei, illumina da dentro.