Dal latino ‘ex-ducere’

Sono stata educata da una bambina di sette anni, la mia Elisa. Ogni tanto viene da me il pomeriggio, studiamo insieme. Impara a leggere, a scrivere, fa i conti e qualche volta, quando ci resta un po’ di tempo, mi educa.
Mi canta le canzoni che impara a scuola, mi insegna a cantare a voce alta, senza aver paura di sbagliare le note. Poi fa un disegno e mi insegna a colorare fuori dai bordi: è divertente lasciarsi andare, con lei, sbrigliare la matita e vedere dove andrà. Capita che mi scriva qualche biglietto. Sì, c’è ancora qualche errorino nelle frasi che mette insieme, ma da lei ho imparato che non si può sbagliare mai se una cosa la si scrive con il cuore.
Io le insegno, lei mi educa.
Educare. E’ un termine, questo, che non smetterò mai di voler utilizzare.
La prima volta che l’ho conosciuto, che ho avuto realmente cognizione di cosa significasse, facevo il terzo anno di liceo. Quanti termini nuovi imparai quell’anno: incedere, gentilezza, gnoseologia, educare. Fu la mia professoressa di francese a insegnarmi: la parola educare, dal latino ‘ex-ducere’, significa ‘tirar fuori’, ‘condurre’. Si trattava di un termine di ascendenza arcaica che nel passato era utilizzato in riferimento alle piante, al loro germogliare.
Che stupenda metafora.
Da quel momento, quel termine aveva assunto per me un colore del tutto nuovo. Il lavoro di un educatore, per la mia professoressa di francese del liceo, doveva sembrare per qualche verso simile a quello di un contadino che si prendeva cura della sua terra, lasciava un semino qui ed uno lì e poi, premuroso, si accertava che le condizioni fossero sempre le migliori per la crescita della sua piccola piantina. Innaffiava regolarmente il germoglio, controllava che il sole ne baciasse i contorni o all’occorrenza lo riparava dall’eccesso di luce e, se era necessario, sistemava accanto allo stelo un piccolo pezzo di legno che guidasse la crescita della pianta verso l’alto.
Quel termine doveva ricordare alla mia professoressa di francese del liceo il lavoro umile, generoso e necessario di un contadino; ne ero certa.
Ne ero certa perché, sotto il suo sguardo attento, io mi percepivo crescere, riempire sempre più spazio, allargare i miei confini, senza paura. Ne ero certa perché, nella cura delle sue mani, io mi sentivo come un piccolo germoglio che veniva indirizzato verso la luce.
Ho conosciuto altre dita, carezzevoli come quelle della mia professoressa di francese, al liceo. Alcune mi hanno educato all’arte, alla sensibilità. Altre mi hanno educato al pensiero, alla storia. Le mani che mi hanno condotta per un percorso più lungo e che ancora mi accompagnano lungo la strada mi hanno educata alle parole, alla poesia, all’amore. Mi hanno sempre chiamata per nome, quelle mani e sempre, anche oggi, a distanza di qualche anno, custodiscono il mio nome con cura e lo pronunciano per sprone e con dolcezza.
Volendo citare uno di quei quattro versi imparati a memoria in quinto anno, che adesso mi ritornano utili dopo tanto marcire chissà dove, quelle della mia professoressa di letteratura sono state per me ‘le occulte mani che m’intridono e che mi regalano la rara felicità’. Tutto quello che la sua voce ha letto per noi da un libro stampato, frigido, si è evoluto in sensibilità, sentimento, emozione. Ho imparato da lei ad emozionarmi di fronte alla delicatezza di un fiore, il gelsomino notturno, leggendo di quei ‘petali un poco gualciti’ che covano una felicità nuova, straniera al poeta. Mi hanno permeato le parole di qualcuno che seppur non conoscendomi ha acceso in me mille e mille raggi, illuminando ognuno dei miei squarci di una luce nuova. Mi hanno commossa quei versi che ci sono genitori, che hanno forgiato quella lingua in cui io, adesso, posso scrivere. Quei versi che colorano d’amore le tre cantiche della Divina Commedia. Amor patrio, Amore divino, Amore romantico. Ci ha letto Dante, la mia professoressa di letteratura del liceo e coi suoi versi ci ha educati sul tema più antico e universale, quell’amor che move ‘l sole e l’altre stelle che solo Lui, tra tutti, ha guardato negli occhi. Quale lezione migliore avrei mai potuto imparare, io, a sedici anni, se non che l’amore non fa sconti a nessuno. Che tutti lo provano, tutti ne vengono imbrigliati, scompigliati, slabbrati. Che è una grande fortuna provarlo, quell’amore per cui si potrebbe anche rinunciare alla vita, ché t’ingentilisce, ti eleva, rendendoti una persona migliore di quanto tu non sia.
Mi ha educata, la mia professoressa, alla sensibilità. A vivere nei dettagli, a guardare oltre quello che è programma, a chiedermi perché fossi seduta tra i banchi, a sentirmi fortunata ad avere un sottobanco colmo di libri, di parole, pensieri di penne che non erano la mia e che avevano saputo scrivere esattamente con la mia stessa calligrafia.
Mi ha educato, il mio Virgilio, il mio liceo, ‘lo mio maestro e ‘l mio autore’ per il mio futuro, per chi sarò.

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